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Editoriale dicembre 2014

L’OCCUPAZIONE PRIMA DI TUTTO

di Antonio Errico

VISIONA QUI IL NUMERO COMPLETO DI DICEMBRE 2014

Nel penultimo capitolo di  Cinque chiavi per il futuro (Feltrinelli, 2006) Howard Gardner formula ai lettori e a se stesso questa domanda: in che genere di mondo vorremmo vivere, se ignorassimo quali saranno in quel mondo le nostre risorse e la nostra condizione?

Ora, sappiamo tutti che non esiste il migliore dei mondi possibili. Lo sappiamo perfettamente. Eppure ciascuno si figura l’immagine di un mondo in cui vorrebbe vivere e nel quale vorrebbe che vivessero almeno le persone che gli sono care. Spesso, in quella figurazione trasferisce alcune cose del mondo che conosce: certe creature, una  bellezza, alcune storie, un paese, qualche incantevole contraddizione; se le porta dietro perché è da quelle cose che vuole generare un mondo migliore, da una combinazione sapiente di vecchio e di nuovo vorrebbe che si sviluppasse una condizione dalla inevitabile e attraente imperfezione, ma che si trasforma in continuazione nel tentativo e nella tensione di esaudire i desideri di chi lo abita.

Non esiste il migliore dei mondi possibili, ma il progresso è determinato sempre dal sogno ad occhi aperti che gli uomini fanno di quel mondo.

Quando Gardner risponde, per se stesso, alla sua domanda, dice che, potendo scegliere, vorrebbe vivere in un mondo caratterizzato dal “buon lavoro”.

Non è difficile comprendere i motivi della risposta. Freud ha identificato nell’amore e nel lavoro i fattori principali di una vita soddisfacente.

Ecco, dunque, che per ognuno il mondo migliore è quello che gli consente  di realizzarsi nell’amore autentico e nel buon lavoro.

Probabilmente non esiste uomo, non esiste donna, che nella stagione dell’infanzia non abbia fantasticato il proprio buon lavoro. Poi, qualcuno riesce a dare concretezza a quella fantasia, qualcun altro no, forse perché a un certo punto si cambia idea o forse  perché i casi della vita sono tanti e molto spesso anche indecifrabili, ma quella fantasia è una delle poche cose di cui rimane una traccia profonda nella memoria. Per sempre.

Non è un caso e non è insignificante che ad un bambino si domandi che cosa voglia fare da grande: lo si domanda perché si ha consapevolezza che un’idea – forse più di una- gli gira e gli rigira nella testa; lo si domanda perché si ha il nitido ricordo di un’idea che ci girava e rigirava nella nostra testa, quando abbiamo avuto la sua stessa età.

Allora, pur nell’imperfezione, nella incoerenza, nella provvisorietà, il migliore dei mondi possibili può esistere. Non può essere quello che assicura l’amore che si desidera, certo, perché la realizzazione di quel desiderio probabilmente dipende da congiunture astrali, ma può essere quello che crea le condizioni, i presupposti, le opportunità, affinché ogni bambino possa realizzare il desiderio del suo buon lavoro.

Così il migliore dei mondi possibili struttura un sistema di formazione in grado di garantire a ciascuno percorsi che assecondino l’inclinazione, per esempio; realizza canali per l’accesso al mondo del lavoro liberi dagli ingombri che sfiancano con la fatica della rimozione; favorisce l’inserimento, l’approfondimento delle conoscenze, il costante adeguamento delle abilità alle nuove condizioni;  sostiene la motivazione, sviluppa processi virtuosi di promozione delle personalità e delle competenze.

Il migliore dei mondi possibili compie ogni sforzo per evitare che si creino sacche di precarietà, di disoccupazione, di alienazione, programmando modalità razionali di accesso al lavoro e di uscita da esso, ma anche forme di mobilità fra i diversi settori.

Può sembrare senza dubbio paradossale assumere a riferimento le caratteristiche del buon lavoro in un tempo che richiede di confrontarsi con le emergenze.

Ma se adesso ci si trova nella condizione che tutti conoscono, se si abita in un mondo che, se non è il peggiore, comunque non è il migliore e neppure il più adeguato dei mondi possibili, è per il fatto indubitabile che si sono commessi degli errori.

Forse al migliore dei mondi possibili, inteso nel senso del buon lavoro, si tende cominciando a verificare quando e dove sono stati commessi gli errori, non tanto per attribuire responsabilità ma per fare in modo di non commetterli di nuovo.

Anche considerando il fatto che è dal buon lavoro che deriva una buona società.

Ogni bambino pensa ad un buon lavoro, non ad un cattivo lavoro. Pensa ad un lavoro che si volge a favore di se stesso e degli altri, non ad un lavoro che danneggia qualcuno o qualcosa. Per cui, creare un sistema che permetta ad ogni giovane, ad ogni adulto, di svolgere il buon lavoro dei suoi desideri significa eliminare o comunque ridurre notevolmente le cause e le occasioni di devianza, di disadattamento, di emarginazione.

Allora bisogna coltivare l’utopia di costruire il migliore dei mondi possibili per poter poi ottenere un mondo equilibrato. Quello in cui viviamo non ha equilibrio: è sbilanciato; offre molto a pochi e poco a molti; a taluni non offre proprio niente; raramente consente il buon lavoro; nella maggior parte dei casi costringe ad arrangiarsi, a cercare costantemente di rimanere in piedi su un asse che protende tutto da una parte. 

Non è una legge naturale e neppure una legge culturale che le generazioni che vengono si ritrovino in condizioni peggiori delle generazioni che vanno. Le leggi naturali, culturali, economiche, sociali, politiche anche, dicono solitamente ed esattamente il contrario: dicono che le generazioni che vanno lasciano a quelle che vengono una eredità di progresso.

Un esempio: nel Novecento l’Europa ha vissuto due guerre tremende, ha subito dittature devastanti, ma le generazioni che hanno attraversato le guerre, che hanno mangiato miseria, che sono cresciute sugli argini frananti, a quelle che giungevano dopo di loro hanno lasciato almeno tre cose fondamentali, essenziali: la libertà, la democrazia, il benessere.

Le generazioni che sono venute, delle tre cose sono riuscite a mantenere le prime due; la terza, invece, in parte se la sono già  giocata, quello che resta se lo stanno giocando.

Fregandosene di quello che sarà dopo, di come sarà dopo. Vale a dire: fregandosene dei figli e dei figli dei figli, di come stanno, di come staranno.

In eredità non lasciamo niente: abbiamo dilapidato. Anzi, lasciamo debiti. Chi nasce oggi dovrà vivere e lavorare – se ci riesce- per pagare il debito pesante che si ritrova nella culla.

In eredità lasciamo precarietà, disoccupazione, incertezze del presente, incertezze del futuro, valori futili, effimeri, paure, e paesaggi deformati, e nemmeno un significato sostanziale dell’esistere.

Stiamo lasciando a quelli che già ci sono, a quelli che verranno, l’idea maligna che non serve la cultura, che non serve la formazione, che quello che conta è far denaro in fretta, senza tanti scrupoli, senza tanto impegno; abbiamo relegato in un dizionario di arcaismi parole come responsabilità, come dovere, oppure espressioni come essere con l’altro, essere per l’altro.

Soprattutto lasciamo in eredità esempi e modelli negativi, la confusione dei termini e dei concetti di finzione e realtà, la convinzione che l’importante sia apparire, l’attrazione per i cocci di bottiglia luccicanti.

Per accumulare tutta questa eredità ci abbiamo messo tre decenni.

Tre decenni di spensierata superficialità. Senza domandarci mai quale corrente serpeggiasse sotto la superficie calma del mare. Oppure domandandocelo in segreto. Perché a quelli che esprimevano a voce alta la domanda, affibbiavamo l’ingiuria di iettatore,  menagramo, Cassandra invasata.

Anche ora come ora, che non c’è bisogno più nemmeno di guardarsi intorno per capire qual è la condizione in cui ci si ritrova, anche ora come ora, se in un capannello qualcuno si permette di dire che, insomma, la situazione non è bella, che ancora non si capisce quand’è che comincerà la ripresa, la crescita,

subito viene accusato quantomeno di pessimismo cronico.

Non è vero, però. Quello che sembra pessimismo è il fantasma  buono del realismo che abbiamo soffocato nei trent’anni di  lungo carnevale, e che ritorna non per inquietarci ma per avvertirci di cambiare i modi di pensare e i modi di fare, se non vogliamo che questa società diventi un deserto, se non vogliamo lasciare soltanto il deserto.

Il fantasma buono dice anche che bisogna sbrigarsi, e che c’è una cosa dalla quale per mille ragioni e per mille sentimenti  si deve necessariamente cominciare.

Il fantasma buono del realismo dice  che bisogna cominciare dall’occupazione.

Ogni cittadino di buon senso sa bene che non ci sono alternative, che non si può più perdere tempo, che non ha più nemmeno molto senso stare ad indagare quali siano state le cause che hanno determinato una situazione ormai insostenibile. Avverte fortemente l’urgenza di un progetto complessivo prima di risanamento e poi di potenziamento delle possibilità e delle opportunità di lavoro.

Sa bene che è soltanto – o comunque prevalentemente – dalle soluzioni che sapremo trovare – inventarci –  che dipenderà la sorte di tutti e quella di ciascuno.

Si dirà che ogni investimento da qualche parte richiede il risparmio da un’altra. Certo. Ma sarebbe sufficiente chiedere ad ogni cittadino di buon senso di compilare un catalogo degli sprechi e dei privilegi su cui risparmiare per investire altrimenti.

Tanto nei piccoli quanto nei grandi contesti.

E’ convincimento alquanto radicato e diffuso che la volontà aguzza l’ingegno.

Qualche riga sopra si diceva che ci sono stati anni – decenni – di più o meno consapevole spensieratezza. Ma adesso è arrivato il tempo della riflessione, della ponderatezza. Anche della saggezza.

La saggezza impone di trovare una soluzione al problema dell’occupazione. Per tutti i motivi che i politici, gli economisti, gli specialisti del settore conoscono perfettamente.

Ha ragione Gardner, dunque, quando considera il buon lavoro come una chiave per il futuro. Senza questa chiave il futuro rimane inaccessibile, o accessibile soltanto in situazioni di privilegio, a coloro che  riescono ad impossessarsi della chiave, negando il suo uso agli altri.

Ma se sul migliore dei mondi possibili si possono avere innumerevoli idee, per poter ricavare una definizione del peggiore è sufficiente pensare ad un mondo fondato sui privilegi dei pochi.

 

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