• giovedì , 28 Marzo 2024

“Sono liberadentro”:  la filosofia oltre le sbarre

Costruire ponti di umanità in un mondo che cammina sulle rotaie dell’indifferenza”: questo l’obiettivo di un progetto che ha unito liceali e detenute del carcere leccese di Borgo San Nicola. L’intervista all’autrice

 

di Rita Bortone

 

“Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono altre meno evidenti da cui è più difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri. Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l’immaginazione, fonte di creatività” (Henri Laborit).

Questa è la citazione in apertura del volumetto “Sono liberadentro”, di Ada Fiore, illustrato da Valentina D’Andrea ed edito da “Industria filosofica” di Corigliano d’Otranto.

Sul retro della copertina si legge: “Destinato a tutte quelle donne che vivono come prigioniere, consapevoli o inconsapevoli, nelle celle della loro esistenza. Perché trovino la forza di rompere ogni catena e riprendersi in mano, nonostante le tante spine, la bellezza di ogni stagione della vita”.

Il formato mignon del volume (15×8) non gli impedisce di offrire stimoli di grande valenza politica e pedagogica. Ed è questo che ha attratto la mia attenzione.

Ada Fiore, “Sono liberadentro”, Industria Filosofica

Oggi, nella scuola non mancano certo i progetti di educazione alla cittadinanza; oggi, da più parti, e non solo nella scuola, si lamenta la disabitudine dei giovani al pensiero e all’azione riflessiva; oggi, appare difficile, e non solo per i ragazzi, scegliere una propria, consapevole parte nel difficile palcoscenico di questa contemporaneità cangiante e mistificatrice; oggi, l’enfasi della comunicazione, con le sue piazze allargate e aperte a tutti, crea l’illusione di uguaglianze inesistenti e sancisce la legittimità di vuote libertà di parola e di pensiero; oggi, in nome del pluralismo e della libertà di parola, si accettano come legittime affermazioni di stampo razzista o addirittura nazista da parte di soggetti pur istituzionalmente rilevanti e quindi incidenti sulla cultura del Paese e dei giovani; oggi, il costume del social nasconde le solitudini e i disagi esistenziali, e le fragilità si esprimono spesso nelle forme della spavalderia e della violenza; oggi, occorrono interventi ministeriali e progetti nazionali per promuovere nella scuola l’educazione al rispetto. La macchina, oggi, ha spesso più valore della persona.

Oggi quindi, in un momento in cui società e scuola liquidamente corrono verso un futuro sempre più imprevedibile, questo Sono liberadentro mi è sembrato un gioiellino culturale e pedagogico.

Il volumetto nasce da un’esperienza realizzata dall’autrice, docente di filosofia presso un liceo, in collaborazione con la direttrice del carcere di Borgo San Nicola di Lecce.

In “Sono libera dentro” la filosofia è concepita come pratica di un pensiero che si misura con i contesti di realtà e che si fa pratica di cittadinanza

Ma l’esperienza di impegno sociale e di didattica straordinaria, una volta terminata, ha costituito l’inizio di un’altra esperienza di didattica ordinaria: gli studenti del liceo sono stati infatti  coinvolti ed hanno avuto l’opportunità di entrare in contatto essi stessi con le detenute.

Sono diversi gli aspetti del libro che mi sembrano interessanti: la filosofia concepita come pratica di un pensiero che si misura con i contesti di realtà e che si fa pratica di cittadinanza; l’educazione alla cittadinanza che si fa pratica d’impegno sociale, di rispetto della persona, di riconoscimento del suo valore sempre e comunque; la comunicazione che si fa strumento e pratica di conoscenza, di autoconoscenza, di scambio, di liberazione.

Su questi temi abbiamo voluto intervistare la prof.ssa Ada Fiore, cui va tutta la nostra gratitudine.

 

Cosa l’ha spinta a proporre alla direttrice del carcere l’esperienza da cui è nato “Sono liberadentro” ?

E’ sempre stato un mio desiderio quello di confrontarmi con una realtà così complessa come quella del carcere. E sinceramente nessuno si sarebbe aspettato tale risultato. “Sono liberadentro” è nato successivamente.

Quali sono stati i suoi principi ispiratori e gli obiettivi del progetto?

L’idea era quella di confrontarmi con donne che avevano vissuto situazioni difficili, comprendere le loro ragioni e provare a sperimentare un dialogo filosofico, attraverso il quale  portare “bellezza” intesa come “cura e consapevolezza di sé”.

Cosa si aspettava dall’incontro con le detenute? Riteneva che sarebbe stato  facile stabilire con loro e fra loro una relazione ed una comunicazione reali?

Le premesse non erano incoraggianti. La direttrice sosteneva che con le detenute dell’Alta Sicurezza avrei potuto ottenere risultati migliori. Ma io ho voluto lavorare con le detenute comuni, sicuramente più fragili, ma proprio per questo più disponibili ad aprirsi.

 

Ada Fiore: “Le detenute si sono sentite persone. E questo è il vero risultato”

Come sono andate poi le cose? Cosa ha determinato, a suo avviso, la riuscita dell’iniziativa e la motivazione delle donne coinvolte ad aprirsi?

Alla fine si sono meravigliati tutti. A cominciare dalla direttrice, che mi ha confessato che mai si sarebbe aspettata di leggere quei pensieri. Si sono sentite riconosciute come persone ed hanno avuto fiducia. Hanno parlato, raccontato di loro. E questo le ha fatte sentire bene.

Cosa c’entra la filosofia con questa esperienza e come hanno reagito le donne coinvolte ad un’idea fondata sull’esercizio filosofico?

E’ stato quasi naturale. La lettura dei testi, se pur a tratti complessa, è servita da stimolo ad una riflessione sui temi scelti. E poi il dialogo è scaturito di conseguenza.

Ada Fiore: “La filosofia è aperta a tutti e rende nobile chi la pratica. E in questo non c’è distinzione tra  uomini e donne, tra filosofi e detenute”

Con quali criteri ha scelto i temi su cui stimolare il pensiero delle donne e promuovere la loro motivazione ad esprimere i vissuti personali?

Li abbiamo scelti insieme. Ho fornito loro un elenco di argomenti e loro mi hanno indicato quelli che preferivano. Devo dire con una assoluta convergenza di tutte. Poi  li abbiamo abbinati   alle varie stagioni.

Qual è il messaggio implicito nell’accostamento tra i liberi pensieri delle donne detenute e i pensieri dei filosofi?

Che la filosofia è vita. Che la filosofia è aperta a tutti e rende nobile chi la pratica. E in questo non c’è distinzione tra  uomini e donne, tra filosofi e detenute. E se i filosofi possono aver pensato prima di sperimentare, nelle detenute è accaduto il contrario: hanno pensato dopo aver sperimentato. Ma il risultato, come si può constatare, è molto simile.

Crede che l’esperienza sia servita alle donne che l’hanno vissuta?

Sicuramente hanno provato emozioni che non avevano mai provato. Siamo state insieme, abbiamo parlato, ascoltato, pianto e scherzato. Si sono sentite persone. E questo è il vero risultato.

Qual è il senso della cartolina che il libro propone ai lettori di inviare alle donne detenute dopo la lettura?

Costruire “ponti di umanità” in un mondo che cammina sulle rotaie dell’indifferenza. Stabilire un raccordo tra il dentro e il fuori, tra l’esterno e l’interno e provare a distruggere quei silenzi dell’anima che sono i più pericolosi.

“Andando in carcere, i ragazzi non  hanno solo visitato luoghi brutti, hanno anche ascoltato, riflettuto sul senso vero della vita. Sulle responsabilità di ciascuno, sul valore della libertà, sulla necessità dell’impegno. Questa è per me una vera forma di cittadinanza attiva”

Che cosa ha significato questa esperienza per i suoi studenti? Aveva deciso di coinvolgerli già da prima o le è venuto in mente dopo?

Loro hanno seguito questa esperienza da subito, attraverso i miei racconti in classe. E poi sono stati loro a voler partecipare.

Come hanno reagito all’incontro con le detenute? Le  reazioni dei ragazzi sono state diverse da quelle delle ragazze?

E’ stata un’esperienza forte per tutti. Senza distinzione. Per tutta la sera mi hanno inviato messaggi di ringraziamento per un’esperienza che, a loro detta , rimarrà per sempre nei loro cuori.

Che rapporto c’è tra questa esperienza straordinaria e la sua didattica ordinaria della filosofia?

Io non conosco l’ordinarietà. Ogni esperienza filosofica, per me, è straordinaria se riesce ad a meravigliare i ragazzi.

Qual è la sua idea di educazione alla cittadinanza? Ritiene che questa esperienza possa esser considerata un contributo all’educazione alla cittadinanza dei suoi studenti?

Andando in carcere, i ragazzi non  hanno solo visitato luoghi brutti, hanno anche ascoltato, riflettuto sul senso vero della vita. Sulle responsabilità di ciascuno, sul valore della libertà, sulla necessità dell’impegno. Questa è per me una vera forma di cittadinanza attiva.

I ragazzi e le ragazze che lei conosce, studenti e studentesse, lasciano trapelare prigioni da cui evadere?

I ragazzi di oggi sono molto complessi. Non parlano molto. E soprattutto non vivono più emozioni in grado di scuotere il loro animo. Sono già imprigionati all’interno di un mondo che li considera per quello che hanno e non per quello che sono. Dobbiamo aiutarli, dobbiamo fare in modo che se ne rendano conto.

Le prigioni da cui non riescono ad evadere influiscono, a suo avviso, e in che modo, sull’esercizio consapevole della loro cittadinanza?

La società capitalistica e consumistica non richiede da loro impegno o sacrificio. E soprattutto identifica in altri valori il senso dell’esistenza. Ricchezza, fama, bellezza: sono queste le mete da raggiungere. Non è assolutamente colpa loro.

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