• martedì , 19 Marzo 2024

“Ne veryu – Non ci credo”: Egidia Bruno porta in scena Konstantin Stanislavskij

di Vincenzo Sardelli

 

“NE VERYU – NON CI CREDO” OMAGGIO A K.S. STANISLAVSKIJ
Interpretazione, testo e regia: Egidia Bruno
Musiche: Vladimir Denissenkov

Luci e Immagini: Vincenzo Vecchione

Voci registrate: Alessandro Rivola e Davide Casarin

Durata: 1h e 20’

Info: mail egidiabruno@libero.it

Età: scuola superiore

 

Abstract

Pilastro del teatro, il metodo Stanislavskij prevede l’immedesimazione totale dell’attore con il personaggio, con i suoi più profondi aspetti psicologici. Ma da quali basi nasce questa teorizzazione del lavoro dell’attore? Egidia Bruno porta sul palcoscenico Konstantin Sergeevič Stanislavskij, ripercorrendo vicende private e professionali, alle quali fa da sfondo una Russia in mutamento, che non mostra mai il suo vero volto.

 

«Ne veryu», non ci credo. Con queste parole Konstantin Sergeevič Stanislavskij (Mosca 1863-1938) censurava gli attori che a teatro si esibivano secondo stili tradizionali: pose innaturali, recitazione impostata, gestualità fin troppo icastica, esasperazione melodrammatica dei sentimenti e delle reazioni. Attori prede di maschere così artefatte, da esserne prigionieri anche giù dal palcoscenico.

 

La vita, il teatro, le teorie di Stanislavskij passati al setaccio. Un’attrice che cura la propria ricerca storica e drammaturgica con l’acribia di un amanuense. È questo il monologo Ne veryu, omaggio che l’attrice lucana Egidia Bruno dedica all’attore, regista teatrale e insegnante russo, teorico del teatro, noto per essere l’ideatore dell’omonimo, celebre metodo. Lo spettacolo ha esordito a novembre allo spazio No’hma Teresa Pomodoro. Un teatro che è un gioiellino nel cuore di Città Studi a Milano, gestito dalla giurista Livia Pomodoro, fondato e dedicato alla sorella Teresa, attrice e drammaturga scomparsa dieci anni fa.

Non è un vezzo definire Livia Pomodoro (pugliese di Molfetta, anche cugina degli scultori Giò e Arnaldo) una mecenate: degli artisti, regolarmente pagati, e del pubblico. Tutti gli spettacoli del Teatro No’hma sono a ingresso gratuito. Tra questi, molte chicche della scena internazionale, dalla Francia alla Russia, dalla Turchia a Israele, all’Asia.

No’hma è parola di origine greca che indica il legame tra ragione e sentimento. Ragione e sentimento si coniugavano strettamente anche nella concezione del teatro secondo Stanislavskij, a sua volta rampollo di una famiglia di mecenati.

 

Egidia Bruno si accosta al personaggio e alla storia di Stanislavskij con la consueta meticolosità. Con le luci e le immagini di Vincenzo Vecchione, con l’accompagnamento alla fisarmonica di Vladimir Denissenkov, con l’aiuto di gigantografie in bianco e nero, con voci maschili fuori campo che riproducono pensieri e aforismi di Cechov (Alessandro Rivola) e dello stesso Stanislavskij (Davide Casarin), Bruno racconta una storia che unisce episodi ordinari a tratti epici. Lo sfondo è di una Russia che cambia pelle, dall’epoca degli zar all’avvento del comunismo, con i lampi della guerra sullo sfondo.

 

Era un’epoca in cui di verità ne circolavano poche. La finzione albergava nelle relazioni sociali, oltre che nella vita pubblica e nella politica. E trovava nel teatro una cassa di risonanza. Ecco che allora il cosiddetto metodo Stanislavskij, con le sue tecniche d’immedesimazione e riviviscenza, suonava come un monito al recupero dell’autenticità, per un teatro che non si limitasse alla riproduzione caricaturale della realtà.

I vari mestieri del teatro e la pedagogia dell’attore. Il regista. La maieutica che porta l’artista a scavarsi dentro, ad approfondirsi psicologicamente, a incontrare i propri fantasmi o i propri bagliori, a modificarsi per sfrondare ogni eccesso narcisistico e trovare naturalezza e genuinità. Stanislavskij chiamava l’attore a esternare le emozioni interiori, passando per la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo. In scena arrivava l’innesto tra le emozioni del personaggio rappresentato e quelle che l’attore identificava dentro di sé. Stanislavskij sottolineava l’importanza della fisicità in scena. Riconosceva il valore del rapporto con il pubblico, del quale liberava la capacità visionaria. C’era tutta la fatica del regista di condividere i movimenti sul palco con l’attore, aiutandolo a mettere in scena le sue mille sfaccettature. Era questo il suo stile. Senza intellettualismi. Seguendo l’istinto. Creando un contatto panico che infrangeva la quarta parete, senza barattare estetica e sensibilità.

 

Il metodo Stanislavskij prefigura il teatro non come luogo “dove tutto è finto, ma niente è falso”: piuttosto come spazio per la creatività, dove sono autentiche le percezioni e le sensazioni, perché invece sentimenti ed emozioni possono essere manipolati.

Egidia Bruno è interprete sanguigna. In scena riproduce i due estremi tra i quali si mosse Stanislavskij. L’attrice parte con un registro “scolastico” su brani di Racine e Shakespeare: mette in scena un’interpretazione tradizionale, leziosa e contraffatta di teatro d’autore e di regia tradizionale, per smentirla subito dopo. Propone quindi, incarnandole dentro di sé, le varie tappe che sedimentano un metodo che rivoluzionerà il teatro, esprimendo tutto ciò che è viscerale: la pelle e l’anima, i gesti, gli occhi, le intuizioni.

Stanislavskij insegnava che tutti hanno una possibilità creativa. Che dentro ciascun uomo si nasconde un animo intuitivo, primordiale, che attende di essere stanato e ricondotto all’arte.

L’intreccio inestricabile tra arte e vita. La famiglia e gli amori. Il lavoro e il contesto politico. Le manie più balorde, contro cui Stanislavskij si scagliava, come quella di recitare dondolando la testa. Gli incontri con grandi personaggi, come gli italiani Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, e soprattutto la «divina», Eleonora Duse: attori dalla forte personalità, cui bastavano gli occhi per illuminare il palcoscenico.

 

La disciplina ferrea portò Stanislavkij a lavorare anche il giorno del funerale della madre. Per lui l’arte era imperativo categorico. Il lavoro era la forma più pura di elevazione dello spirito. Detestava la volgarità. Dei suoi attori voleva conoscere ogni dettaglio, e ne imparava con riguardo nome e cognome. Per ogni attore pretendeva un camerino nel suo teatro. Dedicava una cura maniacale alle prove. Detestava le cose improvvisate. Rivoluzionò il sipario. Per la prima volta gli attori comparivano di spalle. Stanislavkij fu tra i primi a violare la quarta parete. Viaggiava per studiare ogni dettaglio dell’ambientazione delle sue opere. Creava gruppi di lavoro. Non lesinava spese per le numerosissime comparse. Studiava luci e ombre, il contesto, gli usi del tempo. Dosava il realistico e l’onirico. Forgiava, con la regia, il sottotesto delle opere.

 

Accompagnata alla fisarmonica da Vladimir Denissenkov, l’“Astor Piazzolla dell’Est”, compositore e virtuoso del Bajan, musicista che ha collaborato, tra gli altri, con Moni Ovadia, Fabrizio De Andrè e Ludovico Einaudi, Egidia Bruno si accosta al personaggio e alla storia di Stanislavskij con ampi flashback. Regredisce all’infanzia del grande regista e teorico del teatro russo. L’inverno moscovita e poi la passione per le arti sceniche, i balletti del Bolshoj, i loro costumi mozzafiato, le coreografie aggraziate, le musica emozionanti.

 

Il talento emergente del piccolo Konstantin doveva scontrarsi con problemi come la salute cagionevole, la balbuzie, la smemoratezza. Eppure nel 1898 Stanislavskij avrebbe fondato insieme a Nemirovich-Danchenko il grande Teatro d’Arte, destinato a ospitare gli allestimenti del grande drammaturgo Anton Cechov.

È tutto perfettamente dosato in questo spettacolo artigianale che si vale, classicamente, di una sola sedia, di uno sfondo illuminato con tinte soffuse omogenee, del sottofondo di una musica appena accennata, mai invasiva.

 

PERCHÉ LO CONSIGLIAMO

Lo spettacolo aiuta a riflettere su un approccio corretto alle arti sceniche. È utilissimo a tutti gli insegnanti, di ogni ordine e grado, che intendano avviare un laboratorio di teatro.

«Parlare di Stanislavskij nasce dal bisogno di ricordare non solo un grande maestro – spiega Egidia Bruno –, ma anche ciò che il suo esempio può rappresentare in termini di serietà, studio, ricerca, perseveranza, di un’etica che trascende l’ambito artistico».

 

Nello spazio di ottanta minuti, nei confini del proprio artigianato, Bruno condensa la poetica di Stanislavskij e ne interpreta gli stilemi vivendoli sulla propria pelle. La troviamo immersa nel qui e adesso, e proiettata verso un altrove. Nell’accuratezza che riserva al personaggio e al monologo, troviamo la piena espressione di un autore, della sua arte, di una passione e un’urgenza perseguite instancabilmente, con una risposta mai definitiva sul rapporto tra realtà e finzione, tra la dimensione psicologica del personaggio e il mondo interiore dell’attore sul palcoscenico.

 

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