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Editoriale Giugno 2014

Perché la scuola serva ancora

di Antonio Santoro

Non rappresenta certo una novità il tema della crisi del sistema scolastico pubblico, da lungo tempo ormai oggetto di preoccupazioni diffuse, proposte e aspettative che auspicano e sollecitano, in particolare, cambiamenti significativi per una adeguata personalizzazione dell’offerta formativa istituzionale e, dunque, per un consapevole riconoscimento della centralità dello studente nei processi di apprendimento. Si tratta di ipotesi di superamento della crisi che, nelle espressioni più radicali, delineano e prediligono la possibilità della realizzazione di una scuola senza insegnanti (Sugata Mitra): vale a dire di un <sistema scuola> con profili profondamente diversi dagli attuali e capace, soprattutto, di prendere finalmente le distanze dai compiti tradizionali del docente per considerarlo e valorizzarlo, piuttosto, nella sua funzione specifica di “organizzatore e gestore di apprendimenti personalizzati in contesti orientati all’apprendimento esperienziale” (Anne Sliwka).   Non costituisce una novità neppure la prospettiva, rivoluzionaria, della descolarizzazione, il tema cioè della morte della scuola in quanto “istituzione assolutamente inefficiente, in una società tecnologica sempre più efficiente” (Ivan Illich e Everett Reimer): una prospettiva tornata, per così dire, di moda dopo l’espressione del convincimento di Zygmunt Bauman a proposito del fatto che l’imprevedibilità dei cambiamenti nella società contemporanea “certo non testimonia a favore dell’idea di un’istruzione scolastica istituzionalizzata” e mina conseguentemente alla radice i “presupposti basilari dell’istruzione” scolastica.               A ben considerare sono tutti, comunque, ambiti tematici e problematici che la recente pubblicazione del libro di Andrea Bajani, La scuola non serve a niente (Laterza – la Repubblica, aprile 2014), invita in qualche modo a riprendere per ulteriori approfondimenti e valutazioni. Una sollecitazione che ritengo però di dover lasciare sullo sfondo – senza naturalmente toglierla dall’orizzonte delle attenzioni – per privilegiare invece un’opzione ritenuta al momento più opportuna: la scelta di riproporre semplicemente, con libertà di ‘accomodamenti funzionali’, passaggi e sottolineature del citato libro di Bajani, e lasciare così alla decisionalità autonoma di ciascuno, di ogni soggetto interessato, l’onere di ritrovare o di ravvivare / consolidare il senso e il significato delle proprie responsabilità nei confronti del ruolo e della funzione formativa della scuola. In breve, il dovere di tornare ad avvertire – come operatore della scuola, genitore o decisore politico – la necessità di una considerazione attiva del contributo personale e/o degli impegni ‘di competenza’, ritenuti ancora  e comunque indispensabili per il progressivo realizzarsi di una frequenza scolastica “biograficamente costruttiva e socialmente innovativa” (Cesare Scurati) anche nella società dell’informazione e della comunicazione, e nelle incertezze del tempo presente.

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“Quando è arrivato il suo turno, la ragazza (frequenza di un istituto tecnico) ha abbassato il braccio, si è schiarita la voce e ha detto che lei non era più tanto convinta di andare a scuola (p. 12). <Secondo me hanno ragione gli adulti quando dicono che se valesse la pena avrebbe senso studiare. Ma così no. Se siamo sinceri lo sappiamo tutti – ha detto poi rivolgendo lo sguardo agli altri ragazzi nella sala –, solo che qualcuno si vergogna a dirlo: la scuola non serve a niente>” (p. 17). Perché un’allieva di quindici anni parla con evidente, profonda tristezza dell’inutilità dell’esperienza scolastica? Forse perché ancora le “consegniamo un’idea di scuola come un luogo in cui si forniscono (solo) i pezzi e le istruzioni per costruirsi una professione, una fonte di guadagno”. Forse perché le “chiediamo tutti i giorni che cosa vorrà fare da grande, come se la sua età non fosse sufficiente di per sé. Come se i quindici anni non fossero già la vita ma una premessa funzionale alla vera vita, un gettone da non perdere per poter salire un giorno sulla giostra del guadagno”. Forse perché le “insegniamo l’idea di una scuola dove imparare ad essere competitivi perché fuori il mondo o è competizione o non è”. Forse perché trascuriamo di considerare e far vivere la classe come “Una piccola comunità di ragazzi che prima non si conoscevano, e che nella scuola si raccolgono intorno a un insegnante per la semplice ragione che lui conosce il mondo, e di quella conoscenza si prende cura. <L’insegnante – diceva Hannah Arendt – si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume le responsabilità>” (pp. 48-50). E infine, forse perché riteniamo spesso inefficace, improduttivo o inopportuno che la lezione sia “sempre dialettica: […] un continuo alzarsi di mani, un incalzare di precisazioni, esemplificazioni, richieste di chiarimenti […], un parlarsi ogni volta guardandosi in faccia, studenti con studenti, studenti con professori” (pp. 33-34).   Per preservare la qualità dell’esperienza scolastica nel mondo liquido della post-modernità è perciò “necessario anche tornare alla Testimonianza del proprio essere insegnanti. Non c’è garanzia che tenga: il registro, la cattedra, gli anni di studio, neanche le specializzazioni, le medaglie conquistate sul campo, il numero di gite di classe a cui ci si è immolati negli anni. Nulla di tutto questo conferisce oggi al Nome ‘professore’ quell’autorità simbolica, quel riconoscimento sociale, etico, di cui per anni è stato sinonimo […]. Oggi […] nulla gli conferisce di per sé alcuna autorevolezza. Varcata la soglia dell’aula (nella quale “trova lo stesso scenario di facce divise tra sfiducia, attesa, disincanto, noia, curiosità”) non restano che quelle energie che consentono la <riabilitazione etica come Professore della Testimonianza e non come Professore del Nome>” (p. 41).   La scuola ha pure bisogno – oggi non meno di ieri – di un significativo recupero della corresponsabilità educativa da parte dei genitori: quindi, della collaborazione e del contributo di genitori che non cedano – almeno più di tanto – alla tentazione di far sentire la loro voce solo “per contestare l’insegnante”, di ripetere insomma ad ogni circostanza la nota costellazione di luoghi comuni: “Cosa vuole capire un impiegato statale? Non sono in fondo anche loro fannulloni, come sta scritto su tutti i giornali? Cosa può capire un professore della mutua, del mondo di fuori? Cosa ne sa un insegnante – bloccato nel tempo, persino abbigliato in maniera anacronistica – del mondo feroce e dinamico che infuria fuori dalla scuola? Come fa a sapere qualcosa uno che lavora – se va bene – diciotto ore la settimana? Come aiuterà i nostri figli, lui che sta sempre in vacanza, che ha tre mesi di ferie pagate, il giorno libero, e tutti i pomeriggi da dedicare ai figli e allo shopping? Cosa ne sa?, dice il genitore polemico svuotando sul corpo del professore – davanti a lui, o a cena coi figli la sera – fino all’ultima cartuccia del caricatore di stereotipi” (p. 37).   L’assunzione, da parte di genitori e uomini di scuola, delle responsabilità loro riconosciute o attribuite va naturalmente considerata una condizione necessaria e tuttavia non sufficiente per il realizzarsi delle speranze di qualificazione del sistema di educazione-istruzione e, conseguentemente, dei risultati formativi attesi. Non può esserci, infatti, futuro per la nostra scuola se la sua crisi continua a rivelarsi, sostanzialmente, come “lo specchio di un paese in corso di spegnimento” (pp. 39-40); se non cessano “le picconate sistematiche di governi che intervengono sull’istruzione con avvilenti tagli di budget travestiti da riforme epocali” (p. 42); se, in definitiva, non si prende davvero coscienza che “la politica deve cominciare ad agire” a favore della scuola. Per il futuro dei nostri figli e di “un paese di cui sventoliamo le bandiere, nostalgicamente, superficialmente, soltanto durante gli anniversari o le partite di calcio” (p. 44).

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