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Editoriale giugno 2016

Il futuro avrà bisogno di conoscenze essenziali e profonde

di Antonio Errico

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Una volta, in una lettera a Louise Colet, Gustave Flaubert scrisse: Comme l’on serait savant, si l’on connaissait bien seulement cinq à six livres (come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri).
Si trattava ovviamente di una metafora che significava la necessità di una conoscenza che sia, ad un tempo, essenziale e profonda.
Cinque o sei libri da conoscere bene: cioè nei loro nuclei e nelle loro diramazioni di significato, nel loro esplicito e nel loro implicito, nelle allusioni, nei richiami e nelle proiezioni. Cinque o sei libri che dicano il senso della realtà e le figurazioni dell’immaginazione, quello che è accaduto e quello che può accadere, capaci di rappresentare e spiegare quello che accade; cinque o sei libri su cui fondare la comprensione dei fenomeni e delle storie, della natura e dell’arte, della verità e della menzogna.
Con molta probabilità, ogni tempo ha avvertito la necessità di una conoscenza essenziale e profonda. Ma, con altrettanta probabilità, in questo tempo di sviluppo costante e di progressiva dilatazione dei saperi, si avverte in maniera più forte, pressante la necessità di contemperare la quantità con la qualità del sapere; di scegliere, dunque. Non tra quello che si deve sapere e quello che si può non sapere, ma di individuare quei lieviti di conoscenza che consentono di generare e di sviluppare altra conoscenza quando i contesti, le situazioni, le condizioni soggettive e collettive lo richiedono e in relazione al loro continuo mutare.
La capacità di acquisire conoscenze ulteriori in relazione alle situazioni, quando i mutamenti avvengono vorticosamente, è diventata una condizione indispensabile almeno dalla seconda metà del Novecento ad oggi, e lo sarà sempre di più da domani in poi, perché cambieranno costantemente e con maggiore rapidità le situazioni sociali, culturali, politiche, economiche, demografiche, relazionali, cambieranno le esperienze del lavoro, cambieranno le conformazioni antropologiche dei luoghi che abitiamo, i riferimenti valoriali, i processi formativi, i paradigmi narrativi. La conoscenza è sconcertata dalla rapidità delle evoluzioni e dei cambiamenti contemporanei e dalla complessità propria della globalizzazione, dice Edgar Morin.
Allora la domanda su quali siano le conoscenze essenziali e profonde, che consentiranno di essere personaggi attivi nelle narrazioni che si svilupperanno, si carica di valenze esistenziali.
Certo, ciascuno ha una convinzione propria che deriva dall’ideologia, dalla formazione, dal significato che attribuisce alla conoscenza, dall’importanza che ad essa riconosce, dalla interpretazione degli scenari sociali, economici e culturali che vede all’orizzonte.
Però, forse, se si dovessero cercare due elementi, due punti cardinali che possano orientare nella formazione delle conoscenze, si potrebbero individuare due concetti, due termini di sintesi, di enucleazione: la memoria e la visione.
La conoscenza come ponte che si stende tra la coscienza del passato e il sentimento del futuro, dunque.
La memoria. Non esiste conoscenza che non sia fondata sulla memoria, in quanto non c’è lingua, arte, scienza che non provengano da una memoria. Senza memoria, può esserci solo una nozione sfilacciata e sterile, decontestualizzata, senza legami e quindi scollegata, sospesa nel vuoto, senza radice e quindi senza possibilità di fioritura. E’ la conoscenza costruita sulla memoria che consente la comprensione delle piccole e grandi storie, dei fatti dell’uomo, dei suoi vizi e delle sue virtù, che insegna a non rifare le scelte sbagliate, a rifare quelle giuste, a distinguere tra il bene e il male. L’identità di un uomo e di una gente rassomiglia in maniera straordinaria alla memoria di quell’uomo e di quella gente. E’ la memoria che consente di riconoscersi, che elabora il senso dell’appartenenza. Di conseguenza, un sapere senza memoria non può avere identità, oppure ne ha una ambigua, indefinita, per cui non è profondo, non è essenziale, non ha sostanza, non appartiene, non crea la condizione per il riconoscimento di sé.
Sono soltanto alcune delle moltissime ragioni per le quali diventa assolutamente necessario costruirsi una conoscenza che abbia le radici affondate nella memoria. Ma i rami della conoscenza devono protendersi verso la visione.
La visione. Se è vero che non c’è un solo istante in cui non si pensi all’istante futuro, allora è anche vero che non c’è un solo istante in cui non ci si collochi nel futuro. Ci vediamo in un altro luogo o nello stesso luogo modificato; ci vediamo in un tempo che ancora non è venuto; ci vediamo esistere in quell’altro luogo, in quel tempo non ancora venuto.
Quindi abbiamo una continua visione del futuro e il bisogno di conoscenze che ci facciano comprendere in che modo saremo in quel futuro.
Il modo in cui saremo dipenderà dalla nostra capacità di leggere e interpretare i segni che annunciano il futuro.
Dunque ci serve quella conoscenza che fornisce gli strumenti per leggere e interpretare i segni. Per esempio: è necessario, indispensabile realizzare conoscenze che mettano nelle condizioni di vedere lo sviluppo che avranno a livello culturale, sociale, economico le migrazioni di popoli, l’evoluzione che avranno la fisica e la tecnologia, quella che avrà l’intelligenza artificiale. Soltanto per esempio.
Così si ritorna a Gustave Flaubert, alla cultura che può venire dalla conoscenza di cinque o sei libri, cioè alle conoscenze fondamentali, a quelle che possono costituirsi come fondamento del sapere che serve a vedere oltre il presente, utilizzando la memoria, costantemente ravvivata e rinnovata dal presente e nel presente, come specchio nel quale guardarsi per riconoscere il proprio essere tra gli altri e con gli altri che fanno da compagni di viaggio verso i luoghi e i tempi futuri.

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In copertina immagine di:
Vito Caliandro 1B
Scuola Secondaria 1 grado “G.Pascoli”
del 1° Istituto Comprensivo di Ceglie Messapica (BR)
Dirigente scolastico Dott. Giulio Simoni

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