• venerdì , 19 Aprile 2024

Si può raccontare il presente solo con piccole storie

di  Antonio Errico

 

Ogni tempo pretende un racconto che in qualche modo lo rappresenti, che scopra ed esponga quelle che sono le sue ferite superficiali e profonde, che ne riveli le farse e le tragedie, le coerenze e le contraddizioni, le fortune e le sfortune, le vanità e le miserie,  le realtà e gli immaginari,  gli entusiasmi, le paure, le illusioni, le virtù, i vizi, le finzioni, i volti degli uomini e le maschere sotto cui i volti si nascondono.

Se le vicende del tempo sono prevalentemente lineari, se si dispiegano con un principio e una fine, se le loro trame e i loro intrecci hanno strutture ordinarie, allora sono possibili le grandi narrazioni: quelle storie possenti come cattedrali, con personaggi marcati e robusti, esemplari che interpretano l’epoca e i progetti. Se gli eventi che accadono risultano semanticamente accessibili con logiche interpretazioni, si rivela anche agevole tessere allegorie del sociale, rappresentazioni della realtà nel suo trasformarsi e diventare Storia.

Ma se i fatti, le circostanze, gli avvenimenti si presentano come groviglio, intrico, continua complicazione, se la decifrazione di quello che accade è sempre dubitabile, precaria, soggetta al sospetto di improbabilità, se la realtà si propone come coacervo di frammenti per cui risulta difficile e comunque incoerente tentare di introdurre un ordine nella confusione, perché il principio regolatore è costituito proprio dalla confusione, dalla frammentarietà, dall’incoerenza, dal travaglio, dalla fluttuazione dei significati, dall’assenza di nessi e dalla disgregazione, allora non si può fare altro che raccontare per frammenti, per microstorie, attraverso disarticolazioni delle ampie strutture, delle macrostorie. Non si può fare altro che muoversi in piccole stanze, analizzando gli strati di  polvere depositati sui mobili.

Molte narrazioni del Novecento hanno fatto i conti con questa condizione, ne hanno elaborato innumerevoli figurazioni, ed è stato un poeta a  formularne l’essenza, la natura intima. “Non più lunghi poemi, suppongo./ L’anima brucia rapidamente la sua scorza,/la mente divora la metafora,/ il significato è fulmineo” ha scritto Mario Luzi.

Ora sono passati diciassette anni esatti dal principio di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio, e forse la situazione si è oltremodo complicata. Il presente si è fatto ancora più frammentato, ancora più difficilmente decodificabile, l’interpretazione si ritrova inevitabilmente insidiata dalle turbolenze della complessità, tutte le teorie e tutte le prassi sembrano superate, inadeguate alle forme dei paesaggi che mutano in continuazione, alle improvvise  svolte del tempo, alle figure dell’umano che agiscono sulle scene dell’esistere.

Certe volte si ha finanche  l’impressione che il presente non abbia una significanza tale da motivare la narrazione, che non meriti il racconto.

Dieci anni prima che il secolo si concludesse, nella premessa a La chimera, Sebastiano Vassalli sosteneva di aver capito che nel presente non c’è niente che meriti di essere raccontato. Il presente è rumore, diceva: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme e in tutte le lingue, cercando di sopraffarsi l’una con l’altra. Per  cercare le chiavi del presente, diceva, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore, andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla.

Sebastiano Vassalli un po’ aveva ragione e un po’ sbagliava.

E’ vero che il presente è rumore, ma forse  è proprio quel rumore che esprime – invoca –  una domanda di racconto.

Però aveva ragione considerando che, per comprendere il presente, bisogna uscire dal rumore per addentrarsi nella notte: nel silenzio che ricopre e a volte difende la memoria, la Storia, che attribuisce la riconoscibilità alle forme e alle figure.

Probabilmente intendeva affermare, coerentemente con la sua poetica, l’indispensabilità  di un confronto del racconto con la Storia, con le sue riverberanze, con le sue implicazioni, ma anche con i suoi codici.

Solitamente si pensa che un elemento di identificazione dei fatti storici sia costituito dalla trama. Così il rapporto che la narrazione stabilisce con la Storia molto spesso è caratterizzato da questo elemento.

Ma dal Novecento in poi la relazione fra narrazione, Storia e trama, si è frantumata, specularmente alla frammentarietà che connota il tempo.

Ancora una volta è stato un poeta, Giorgio Caproni, a darne una formula significativa: “Leone o Drago che sia, / il fatto poco importa. / La Storia è testimonianza morta. / E vale quanto una fantasia”.

Qualche tempo fa, parlando del più e del meno, una persona  mi diceva che nei romanzi di un certo scrittore è quasi totalmente assente la trama. Mi diceva che a volte ne abbozza una, ma poi ci rinuncia, si ritrae.

Ho letto i romanzi di quello scrittore man mano che venivano pubblicati. Il suo primo lavoro, uscito qualche anno prima della fine del secolo, era un libro di racconti: frammenti, dunque. I personaggi erano figure che cercavano di costituirsi come rappresentazione di destini. Niente trama, perché i destini non hanno una trama. Poi ha continuato con romanzi che impiegavano la Storia come pretesto. Anche in questo caso nessuna trama, perché la Storia quasi sempre è determinata dal caso.

Non l’ho più riletto, ma sulla base di quello che ricordavo, ho cercato di dire alla persona amica che con molta probabilità l’assenza di una trama voleva intenzionalmente significare l’impossibilità da parte del narratore di governare quello che narrava allo stesso modo in cui nessuno può governare la propria esistenza e meno ancora l’accadere dei fatti, se non limitatamente a minuscole e sostanzialmente ininfluenti circostanze.

Forse l’assenza di una trama significava che in ogni tempo, e in questo più che in ogni altro,  noi non andiamo da nessuna parte, che siamo trascinati da un vento che non sappiamo neppure da dove venga, che meno che mai sappiamo dove ci sta portando.

Forse soltanto questo vento, oggi, possiamo raccontare.

Forse soltanto questo trascinamento, quest’incognita. Forse non possiamo raccontare altro che una domanda sui destini che ci toccano, nient’altro che la  consapevolezza che la risposta non potrà mai darla nessuna narrazione, nessuna filosofia, nessuna scienza.

 

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