• giovedì , 25 Aprile 2024

D’Onghia: innovazione e competitività per la scuola del futuro

La Sottosegretaria all’Istruzione Angela D’Onghia fa il punto con Scuola e Amministrazione su quali direzioni dovrà prendere la Scuola italiana per essere volano per la crescita del sistema-Paese

di Francesca Rizzo

Come dovrebbe essere la scuola italiana di domani? Innovativa, al passo coi tempi, pronta a fare da volano per l’innovazione tecnologica e strutturale dell’intero Paese. È una scuola che instilla sin dai primi anni nei giovani la competitività come fattore positivo di crescita, perché spinge ciascuno a fare meglio. È una scuola che si avvale dei nuovi strumenti digitali per diventare low cost. Questo il ritratto emerso nel corso dell’intervista ad Angela D’Onghia, Sottosegretaria di Stato del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Sottosegretaria D’Onghia, il Piano Nazionale Scuola Digitale, concepito per aggiornare il sistema educativo italiano, è attivo da quasi due anni, e il MIUR continua a lavorare per innovarlo, in collaborazione con stakeholders pubblici e privati. Che bilancio si può trarre dalle attività condotte finora? E quali novità verranno introdotte per quest’anno scolastico? 

Con il Piano Nazionale Scuola Digitale si sta lavorando in molte scuole in maniera innovativa e si stanno anche vedendo i risultati, che man mano saranno implementati. Come tutte le nuove cose, il piano va innovato: ogni fine anno ascoltiamo gli stakeholders per capire quali sono le innovazioni da apportare e i modi migliori per avere dei buoni risultati. Tutte le buone pratiche sono man mano esplorate e condivise, perché da queste si possa giungere ai risultati. Il mondo delle scuole è molto vasto, quindi è importante fare in modo che le buone pratiche siano conosciute da tutti e che tutti si possano adeguare. Nel corso del nuovo anno scolastico cercheremo di spingere sempre di più verso l’innovazione digitale, per fare in modo che tutti ne possano beneficiare.

Alle porte del nuovo anno scolastico si è riproposto il problema dei costi a carico delle famiglie. L’Osservatorio Findomestic di settembre, realizzato in collaborazione con Doxa, parla di una spesa media di 654 euro a famiglia, con un aumento del 13% rispetto al 2016; libri e dizionari incidono per il 70% sul totale della spesa. Come mettere un freno a questa situazione, in futuro? La tecnologia può aiutare, ad esempio sostituendo i libri con i tablet, come già sperimentato da alcune scuole

Questo è veramente un problema importante, che giustamente viene sollevato ogni anno. Ci sono famiglie che non riescono a sostenere dei costi così alti: oltre 600 euro per una famiglia in cui, magari, a lavorare è solo un coniuge, è un costo eccessivo. Si può fare di più, e anche la tecnologia può fare di più: alcune scuole, già da diversi anni, realizzano pubblicazioni interne e le stampano direttamente, con costi molto inferiori; anche i tablet possono aiutare in questo senso, per fare in modo che questi costi siano ridotti il più possibile. D’altra parte, sappiamo anche che i libri scolastici sono una parte fondamentale per l’editoria, perché le danno una porzione consistente di lavoro. Secondo me bisognerà lavorare sempre di più sia sul discorso dei tablet che riguardo le pubblicazioni interne degli istituti, che con il Piano digitale vengono anche messe in rete: alcuni istituti stanno facendo un ottimo lavoro. Speriamo di proseguire su questa strada e di migliorare sempre di più, perché oggi siamo verso il low cost e non è possibile che i libri dei nostri studenti continuino ad essere un peso eccessivo per le famiglie.

Quest’anno verrà avviata la sperimentazione del diploma di maturità in quattro anni, e Lei stessa ha ipotizzato un accorciamento del percorso della scuola secondaria inferiore, da tre a due anni. Quali miglioramenti dovrebbe portare questo nuovo sistema?

Io ho detto che, nel portare scuola media inferiore e liceo in totale a sette anni, forse sarebbe giusto guardare all’intero percorso in maniera organica, e quindi fare in modo che questi sette anni siano organizzati diversamente, per dare il meglio agli studenti. È giusto eliminare un anno di liceo? O sarebbe preferibile riformulare l’intero percorso di studi dei sette anni dopo la scuola primaria? Completare il ciclo di studi, arrivando al diploma un anno prima, è una scelta giusta per i nostri ragazzi: in Europa, in media, i ragazzi arrivano alla fine del percorso di laurea un anno prima degli studenti italiani. Sarebbe giusto, quindi, permettere loro di avere le stesse chances di arrivare prima nel mondo del lavoro o della specializzazione successiva, per poter competere alla pari con i ragazzi di altri Paesi.

D’Onghia: “Il nostro Paese deve capire che istruire e dare la possibilità ai propri ragazzi di formarsi qua e lavorare qua è l’unica vera, grande sfida per vincere domani”

Negli ultimi anni i progetti di alternanza scuola – lavoro hanno consentito agli studenti dell’ultimo triennio di scuola superiore di vivere esperienze concrete nelle aziende. Quanto giova agli studenti il contatto con il mondo del lavoro, anche in chiave di orientamento degli studi futuri?

Quest’anno siamo al completamento del primo triennio di alternanza scuola – lavoro. L’alternanza fa bene alla scuola e fa bene ai ragazzi: alla scuola perché le permette di conoscere il mondo reale che la circonda, e quindi quali possano essere le offerte di lavoro dopo la scuola, e ai ragazzi per capire qual è la differenza tra la scuola e il lavoro, tra la scuola e l’impresa, e per comprendere che c’è un mondo, al di là della scuola, che ha bisogno dei nostri giovani e delle loro eccellenze, che ha bisogno dell’innovazione che loro portano. Ma i ragazzi hanno bisogno di capire in che maniera devono continuare a studiare per essere sempre più vicini al mondo del lavoro. Io penso che questo sistema faccia bene a tutti, anche al mondo del lavoro, perché gli fa capire quante eccellenze abbiamo all’interno della scuola e quanto si può sviluppare anche in maniera innovativa il lavoro grazie alla formazione che esiste sul territorio. Pian piano si sta avviando una collaborazione tra le scuole e il mondo del lavoro: tre anni fa, quando siamo partiti, ci sono stati tanti problemi, perché le imprese non capivano che cosa volessimo da loro, che cosa volesse essere quest’alternanza di poche ore, di poche settimane.

Nei giorni scorsi ha espresso parere contrario allo sbarramento per l’accesso all’università. Perché?

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Perché noi siamo un Paese strano: parliamo sempre del fatto di avere pochi laureati, ci diciamo che il nostro Paese è giù nelle classifiche per numero di laureati. D’altro canto, invece, sbarriamo ai nostri giovani l’accesso all’università. È una questione di risorse, noi non possiamo togliere le risorse a quello che è il futuro del Paese, è come chiudere una miniera: è come sapere che in fondo ad una montagna c’è una miniera di diamanti e chiuderla perché non abbiamo i soldi per comprare l’attrezzatura e portare alla luce quei diamanti. Lo Stato deve continuamente aprire delle finestre al futuro, specialmente ai nostri ragazzi; per questo dobbiamo fare in modo che l’università possa accogliere tutti gli studenti, per poi portarli, nei primi anni, a dover fare una scelta vera, effettiva se continuare meno a studiare. Non è giusto sbarrare l’accesso, perché poi chi può manda i figli all’estero, chi non riesce ad accedere alla facoltà a cui aspira in Italia si iscrive all’estero: in questa maniera stiamo contribuendo a migliorare le condizioni delle università di altri Paesi, ma più che altro stiamo contribuendo a spopolare il nostro Paese da grandi eccellenze. Questo non va bene per noi, che siamo tra le potenze industriali del mondo, uno dei Paesi considerati come la culla della cultura a livello mondiale: sicuramente dobbiamo fare scelte diverse. Il nostro è un Paese che deve capire che istruire e dare la possibilità ai propri ragazzi di formarsi qua e lavorare qua è l’unica vera, grande sfida per vincere domani.

 

Il MIUR punta sulla ricerca universitaria, finanziando con 280 milioni di euro i 180 dipartimenti migliori in tutta Italia. Una prima scrematura ha individuato 350 dipartimenti d’eccellenza: solo questi potranno partecipare alla selezione. Scorrendo la classifica, si nota la netta predominanza di università settentrionali: è il segno di un’Italia a due velocità anche in ambito universitario? E in che modo si può puntare alla crescita degli atenei meridionali?      

Secondo me dobbiamo iniziare a parlare di Italia: in quest’Italia abbiamo delle università che vanno meglio e delle università che vanno peggio e che cercano di migliorare. Ad esempio l’assegnazione dei Fondi per il Finanziamento Ordinario (FFO), che è legata a determinati parametri, ha contribuito a spingere le università che arrancavano ad accettare il confronto e migliorare le proprie performances. Questo fa bene ai ragazzi e al territorio, da Nord a Sud: quando si compete, e si compete per alzare l’asticella, fa sempre bene. Ci sono state anche lamentele da parte delle università settentrionali, che dicono che i fondi, distribuiti quest’anno con dei parametri diversi, hanno penalizzato quei poli che erano già eccellenti: uno dei parametri tenuti in considerazione è stata la crescita rispetto al proprio posizionamento, e questo magari ha portato anche fondi maggiori ad atenei del Sud. Quest’anno gli atenei che hanno aumentato l’FFO sono in gran parte meridionali: al primo posto come aumento troviamo Catanzaro, al secondo il Politecnico di Bari, poi Napoli e Urbino, L’Aquila, l’Università di Bari; questo ha portato una diminuzione di fondi chi andava già bene, e ciò non è giusto: le università che vanno bene non possono vedersi diminuire delle quote di finanziamento, perché devono correre sempre di più e cercare di migliorare ancora. La cosa che serve, più di ogni altra, è un investimento maggiore: servono più soldi per far crescere tutti e per fare in modo che la competizione ci sia, ma ci possa essere sempre, e che tutti possano competere per migliorarsi sempre di più.

Restando in tema di squilibri tra Nord e Sud, i punteggi ottenuti nelle prove Invalsi e i voti della maturità restituiscono due diversi ritratti degli studenti italiani: nel primo caso sono più preparati gli alunni settentrionali, ma i meridionali si diplomano con un voto più alto. Quali conclusioni si possono trarre? E cosa comporta questo squilibrio nel passaggio all’università?  

Sì, c’è un po’ di discrepanza tra le prove INVALSI e i voti della maturità, ma credo che nella competizione successiva, quella universitaria, i ragazzi siano allineati: noi abbiamo studenti del Nord e studenti del Sud che lavorano in maniera egregia, abbiamo tante eccellenze. Io vedo che i ragazzi del Sud che si diplomano con 100 alla fine competono, e competono bene. Naturalmente questo è anche merito delle università, della didattica, di come vengono seguiti gli studenti. Sicuramente al Sud ci sono più problemi di dispersione, più ore di assenza, e forse c’è una minore ristrettezza nei voti. Dobbiamo però fare in modo che la scuola sia vista come scuola italiana, non come scuola del Nord e del Sud: questa divisione fa male al Paese, fa male ai nostri giovani, fa male al futuro dell’Italia. Dobbiamo pensare a come fare in modo che i nostri ragazzi non vadano verso Paesi stranieri per lavoro, ma possano circolare nel nostro Paese. Se il Sud avesse più possibilità di lavoro, e quindi di trattenere i propri ragazzi, avrebbe anche delle università che farebbero meglio e che lavorerebbero insieme alle comunità in maniera più energica. Dobbiamo parlare di un Paese per intero, dal Nord al Sud, e fare in modo che quest’ultimo possa essere valorizzato e che il Nord non lo senta come qualcosa da tirarsi dietro, bensì come qualcosa da portarsi accanto. Tutti dovremmo tentare di lavorare per essere l’uno accanto all’altro, e mai l’uno dietro l’altro.

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