• giovedì , 18 Aprile 2024

Il bilinguismo e le sue peculiarità cognitive e sociali: dall’ambito clinico a quello pedagogico

Intervista al neuroscienziato Franco Fabbro, uno dei più attivi studiosi, a livello mondiale, del cervello bilingue e poliglotta, autore di numerosi articoli e libri di diffusione internazionale

di Antonio Lupo

Abstract

Nei numerosi saggi di Franco Fabbro sulle neuroscienze del linguaggio è delineato un panorama clinico e pedagogico delle problematiche relative all’apprendimento delle lingue: “un viaggio nel cervello bilingue “ attraverso testi utili ad insegnanti di ogni ordine e grado, non solo a specialisti.

Prof. Fabbro, le sue ricerche e i suoi studi sui rapporti tra cervello e lingue sembrano efficacemente sintetizzati nell’ espressione che completa il titolo di uno dei suoi ultimi libri: “Neuroscienze del bilinguismo. Il farsi e disfarsi delle lingue”( Asrolabio,2018).

Il titolo si ispira ad un libro che Roman Jakobson, grande linguista russo-americano, scrisse negli anni quaranta, un testo dedicato allo sviluppo del linguaggio nel bambino e alla perdita del linguaggio nelle afasie.

I suoi studi di carattere clinico sono stati perciò decisivi per la ricerca in ambito pedagogico

Proprio così. Le mie esperienze di ricerca, dalla metà degli anni ottanta fino al 2005, hanno riguardato lo studio di pazienti che avevano perso il linguaggio a causa di lesioni di natura vascolare oppure tumorale; molti erano bilingui o trilingui della mia regione. Quindi, come dicevo, le mie ricerche neurologiche e pedagogiche derivano dallo studio di casi di pazienti afasici plurilingui.

Sempre a proposito del disfarsi delle lingue, nella casistica da lei studiata, la storia personale del paziente, la sua “ memoria emozionale”, giocano un ruolo fondamentale; tra i casi di “lingua dimenticata”, lei cita anche quello di una donna veneta che inaspettatamente parla in italiano, pur non avendolo mai utilizzato

Sì, sono tanti gli aspetti relativi alle patologie del linguaggio, non solo nell’afasia da traumi o da tumori, ma anche quelli relativi alla demenza. In effetti sia la dimensione emotiva sia l’equilibrio tra le lingue, vengono modificati da una lesione cerebrale, per cui è possibile assistere a situazioni paradossali, come nei casi di recupero di una lingua dimenticata, o addirittura mai utilizzata. Alcune persone, dopo una patologia cerebrale, si accorgono di essere in grado di parlare una lingua che, prima della malattia, non riuscivano ad utilizzare. Spesso, in questi casi, la lesione ha colpito una lingua così duramente, che per il paziente diventa più facile utilizzare una seconda lingua che credeva di non conoscere, poiché collegata a sistemi della memoria differenti dalla prima lingua.

Nello studio dei casi da lei esaminati viene comunque confermato che la seconda lingua non rappresenta un fattore che genera limiti o difficoltà, sia in ambito clinico che in ambito pedagogico. Come mai si è giunti a pensare che il bilinguismo possa intralciare lo sviluppo psicologico del bambino?

Si tratta di una domanda molto diffusa nell’Ottocento, sorta dall’idea che la mente e il cervello siano organizzati secondo modalità di tipo “economico”. In passato si pensava che la mente e il cervello fossero come dei contenitori, nei quali se la prima lingua occupava il 70 % delle risorse e la seconda lingua il restante 30 % , non ci sarebbe stato più spazio per le altre materie di studio. Questa idea era stata diffusa soprattutto da alcuni filosofi e pedagogisti francesi e tedeschi. Un’idea che, come ho scritto nel libro intitolato Che cos’è la psiche, è vicina al monoteismo, ovvero al ritenere che una divinità è meglio di molte.

Come e quando si è cominciato a capire che questa visione era sbagliata?

Tutto è iniziato in Canada, e soprattutto a Montreal, capitale del Québec, dove gran parte dell’alta borghesia parlava prevalentemente la lingua inglese. Negli anni settanta-ottanta, quando in Québec si è registrata una forte spinta autonomistica, molte persone della borghesia di Montreal hanno cominciato a porsi il problema di educare i propri figli in maniera bilingue, introdurli perciò non solo alla conoscenza della lingua inglese, ma anche francese.

Tuttavia ci si chiedeva se il bilinguismo potesse danneggiare la competenza scolastica dei bambini. Con queste motivazioni, la Mc Gill, una Università di lingua inglese, ha promosso le ricerche e gli studi, coordinati da Wallace Lambert, sulla competenza intellettiva e scolastica dei bambini bilingui. All’inizio si è scoperto che i bambini bilingui francesi e inglesi sembravano essere addirittura più intelligenti dei monolingui francesi e monolingui inglesi. In seguito, i ricercatori si sono accorti che questo risultato era in relazione con il fatto che i bilingui provenivano mediamente da famiglie colte. La ripetizione degli studi, bilanciando questo fattore, ha permesso di constatare che il bilinguismo non riduce, né aumenta l’intelligenza.

Un secondo gruppo di ricerche ha studiato l’effetto del bilinguismo sulle competenze scolastiche. Grazie a tali ricerche, si è potuto evidenziare che i bambini bilingui non presentavano carenze nelle altre materie di studio (matematica, fisica, storia, scienze, ecc.). Si è potuto quindi concludere che il bilinguismo non ha effetti problematici, né sulle competenze intellettive, né per quanto attiene alle conoscenze scolastiche. Ciò significa che il bilingue ha una marcia in più: non solo conosce due lingue ma, come gli studi successivi hanno mostrato, ha una maggiore flessibilità cognitiva.

E’ stata riscontrata una maggiore competenza anche nel linguaggio non verbale ?

Si è visto che i soggetti plurilingui, bambini o adulti, hanno una maggiore flessibilità cognitiva. Questa competenza cognitiva è collegata alle funzioni del lobo frontale, una delle strutture più importanti del cervello umano. Infatti, una persona bilingue deve costantemente decidere quale lingua utilizzare; ciò determina un maggiore sviluppo della consapevolezza, della decisione e della capacità di inibizione.

Inoltre si è potuto constatare che le persone bilingui, facendo ricorso più frequentemente alle funzioni esecutive, tendono a presentare una maggiore riserva cognitiva rispetto alle persone monolingui. Ciò significa che, a parità di condizioni, tendono a presentare meno sintomi cognitivi, nel caso siano colpiti da malattie degenerative come il morbo di Alzheimer.

Bisogna quindi selezionare, fare una scelta lessicale, inibendone un’altra..

È necessario esercitare la scelta e la capacità di inibizione. Si tratta di competenze collegate con l’autocoscienza. Una persona bilingue, si rende conto che in alcuni ambiti è possibile esprimersi meglio in una lingua rispetto all’altra. Talvolta, per una persona bilingue, è più facile parlare di un dato argomento in una lingua rispetto ad un’altra.

Eppure si è partiti da presupposti che mettevano in dubbio il guadagno cognitivo, si riteneva che il soggetto bilingue incontrasse tante difficoltà, dagli errori morfo-sintattici all’’espressione poco fluente, da attribuire allo scarso impegno o alle scarse doti...

Fino a non molto tempo fa il mondo sanitario aveva una visione del linguaggio focalizzata sul monolinguismo; così pure la scuola, quando si avvicinava ai bambini bilingui o plurilingui, li inquadrava in maniera non corretta.

Perché?

Bisogna dire che i bambini bilingui, spesso mostrano una minore scioltezza nell’espressione verbale rispetto ai bambini monolingui. E’ vero che il bilinguismo non crea problemi di ordine intellettivo, di ordine culturale, ma occorre tener presente che il bambino plurilingue ha uno sviluppo linguistico differente da un bambino monolingue. Ad una certa età, un bambino bilingue può avere un lessico, nella lingua A e nella lingua B, inferiore a quello di un bambino monolingue. Tuttavia, la somma delle parole conosciute nella lingua A e nella lingua B è notevolmente superiore a quelle del bambino monolingue. Inoltre, in età adulta, i soggetti bilingui conoscono in genere, nella prima lingua, lo stesso numero di parole dei soggetti monolingui.

E’ stato necessario sgomberare il campo da tanti pregiudizi… da forti condizionamenti quindi

Il campo dell’educazione linguistica è un ambito molto complesso e risente dell’influenza della nascita degli Stati nazionalisti in Occidente. Come ha evidenziato lo storico israeliano Shlomo Sand nel suo famoso libro L’invenzione del popolo ebraico, il nazionalismo può essere interpretato come una visione religiosa di stampo “monoteistico”, dove ciò che è diverso (anche dal punto di vista linguistico), viene visto in maniera negativa. La religione del nazionalismo è formata da credenze e rituali caratteristici, una delle credenze più tipiche è che tutti i cittadini debbano conoscere soltanto una lingua, quello dello Stato nazionale.

I preconcetti nazionalistici hanno influenzato non soltanto l’ambito educativo, ma anche quello sanitario. Come ho detto, ci sono voluti diversi decenni di ricerca nell’ambito della psicologia e delle neuroscienze per smascherare i preconcetti ideologici contro l’educazione plurilingue.

Ritornando all’aspetto pedagogico, nei suoi saggi si sottolinea come la seconda lingua non sia da apprendere attraverso l’applicazione di regole e di traduzione, come per le lingue morte, ma sia invece da praticare, da utilizzare nella socializzazione, da vivere nelle diverse situazioni.

La pedagogia delle lingue, dall’Ottocento fino al 1970, si ispirava alle modalità di apprendimento delle lingue morte (greco, latino, sanscrito). Dobbiamo ricordare che in Europa la lingua franca delle Università era il latino. Cartesio, Leibnitz e Kant, avevano imparato in latino come seconda lingua, mediante l’apprendimento consapevole delle regole grammaticali. Allora si pensava che le lingue vive dovessero essere apprese come le lingue morte. In Italia questo è stato il metodo prevalente fino agli anni settanta-ottanta; le persone della mia età hanno imparato la lingua inglese o la lingua francese, come fossero delle lingue morte. L’insegnante non parlava quasi mai in francese o in inglese. Si imparava la grammatica, convinti che conoscere una lingua significasse soprattutto saper scrivere e saper tradurre.

La grande conquista della psicologia delle neuroscienze consiste nell’aver scoperto che esistono diversi sistemi della memoria a lungo termine: alcuni dei quali sono collegati con l’apprendimento delle lingue morte (memoria semantica). Con la scoperta della memoria procedurale, collegata alle strutture più antiche e automatiche del cervello (gangli della base, tronco dell’encefalo, cervelletto), si è potuto capire meglio la differenza fra apprendimento (memoria semantica) e acquisizione (memoria procedurale).

Prof. Fabbro, il bilinguismo coinvolge più della metà della popolazione, nella nostra società sempre più multilingue, sono aumentati i nuclei familiari con genitori di lingua e cultura differente. Quali consigli suggerisce a genitori e insegnanti che si rapportano quotidianamente con bambini che in casa parlano più lingue?

Questa è una domanda centrale soprattutto nella società attuale, ma era molto importante anche un tempo. E’ anche una domanda complessa. Ci sono delle regole su come educare i bambini in famiglie multilingui. In genere la famiglia deve scegliere una lingua franca da usare quando si sta tutti insieme, poi ognuno dei due genitori può usare in contesti differenti la sua propria lingua materna e sviluppare attività significative utilizzandola con il bambino. Queste regole possono essere violate in qualche occasione (quando viene invitato a casa un bambino che non conosce la lingua franca utilizzata dalla famiglia). All’interno dei contesti educativi plurilingue si deve evitare che le lingue possano costruire delle barriere tra i componenti della famiglia (ad esempio i genitori utilizzano tra di loro una lingua che i loro figli non comprendono).

Come ho detto, i pregiudizi contro l’educazione plurilingue sono ancora molto diffusi, soprattutto a livello psicologico. Si tratta di concezioni spesso collegate con le cosiddette ‘religioni del nazionalismo’. Anche ora, in un periodo in cui si parla molto di educazione bilingue o plurilingue, non si è fatta sufficiente attenzione ai preconcetti verso le lingue, e verso le culture diverse da quelle dominanti. Molti genitori stranieri ritengono la loro lingua sia inferiore a quella del paese in cui sono ospitati. Ad esempio, molte donne provenienti dai paesi dell’Europa dell’est ritengono che la loro lingua e la loro cultura sia inferiore alla lingua e alla cultura italiana, e per questo motivo non insegnano la loro lingua materna ai loro bambini. La stessa cosa succede ai genitori di cultura spagnola negli Stati Uniti.

Non credo ci sia Italia ancora una reale cultura plurilingue, nella quale le lingue diverse dall’italiano siano realmente apprezzate e considerate di pari dignità. Nemmeno in ambito educativo, dove si fa finta di credere all’importanza della diversità culturale e linguistica, ma poi nei fatti non ci crede quasi nessuno.

Da tempo le raccomandazioni europee (1998) stabiliscono l’apprendimento di almeno due lingue, oltre la propria.

Nessun paese europeo le ha realmente applicate. Bisogna superare un preconcetto religioso-culturale, per credere nel valore dell’educazione plurilingue, è necessario superare la ‘religione nazionalista’ per fare spazio alla tolleranza. Per esempio, se sento parlare il pugliese, immediatamente potrebbe darmi fastidio la diversità dei suoni, delle parole, delle frasi. L’educazione alle diversità culturali deve aiutarmi a capire che il pugliese ha una sua storia e una sua cultura, una validità simile alle altre lingue, come il cinese, l’inglese, lo spagnolo, e che è importante conoscere il pugliese, soprattutto se si vive nelle Puglie; la sua eventuale scomparsa sarà una perdita per tutti.

Lo stesso discorso vale per la lingua friulana o per quella rumena. Si deve tenere presente che il bambino, se educato in maniera adeguata, non perde nulla quando conosce tre o quattro lingue.

A parole, tutti sono favorevoli all’educazione plurilingue, nei fatti però quasi tutti gli Stati, incluso l’Italia, hanno una struttura nazionalistica. A livello profondo coltivano visioni antagoniste rispetto alle concezioni pluralistiche e plurilinguistiche; per queste ragioni non seguono, nei fatti, le raccomandazioni per la costruzione di una educazione plurilingue nell’Unione Europea. L’antipatia verso l’educazione plurilingue non è presente soltanto in Italia, ma anche in Germania, in Francia, ecc. Spesso questa antipatia viene coltivata anche dagli ospiti stranieri di uno Stato dell’UE, che ritengono che la lingua del paese ospitante (italiano, tedesco, francese, inglese) sia una lingua superiore rispetto alla loro lingua materna (rumeno, ucraino, serbo, ecc.).

Sono tutte problematiche identitarie che lei affronta, sotto diversi aspetti, anche nel suo” Identità e culturale e violenza” ( Bollati Boringhieri 2018)

Se non si capisce il tema dell’eguale dignità di tutte le lingue e di tutte le culture, una delle risposte più automatiche consiste nel ricorso alla violenza, perché, quando un individuo o un gruppo non riconosce l’importanza dell’altro, prima o poi tenderà a sopprimerlo. Possiamo comprendere come la politica e la cultura italiana, come quella francese, sia nazionalista perché, come ha sottolineato Pier Paolo Pasolini, ha favorito la distruzione delle culture dialettali che rendevano l’Italia così ricca e complessa dal punto di vista culturale, linguistico, antropologico, ecc.

Allora avevamo molte persone bilingui o monolingui dialettali, ma si trattava di persone profondamente radicate nella loro cultura; adesso abbiamo degli individui sradicati, cittadini frutto di una cultura massificata, che è quella dell’italiano o dell’inglese standardizzato.

Se si prende una famiglia di livello economico medio-alto e si chiede ai genitori se preferiscono che i figli siano educati all’interno della cultura e della lingua italiana o inglese, la maggior parte di loro è probabile preferisca la lingua inglese. Per questa ragione, chi ha la possibilità, manda i propri figli nelle scuole internazionali, perché implicitamente ha aderito alla ‘religione’ nazionalistica anglo-americana. Non parlo delle scuole bilingui (italiano-inglese), ma delle scuole internazionali in lingua inglese.

Questo significa che l’interiorizzazione del monoteismo culturale, ovvero della credenza che esistano delle culture e delle lingue migliori di altre, è alla base della distruzione della diversità culturale e linguistica. La via per essere cittadini del mondo, che è una prerogativa più che legittima, non passa attraverso il monoteismo linguistico, ma piuttosto attraverso il plurilinguismo.

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