• martedì , 19 Marzo 2024

La scuola delle mogli di Cirillo: l’amore è un girotondo

di Vincenzo Sardelli; foto di Luca Del Pia

 

La scuola delle mogli

Regia Arturo Cirillo
Traduzione da Molière Cesare Garboli
Interpreti Arturo Cirillo (Arnolfo, alias Signor Del Ramo), Valentina Picello (Agnese), Rosario Giglio (Crisaldo e il servo Alain), Marta Pizzigallo (la serva Georgette), Giacomo Vigentini (Orazio e un notaio)
Scene Dario Gessati
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Camilla Piccioni
Musiche Francesco De Melis
Coproduzione MARCHE TEATRO, Teatro dell’Elfo, Teatro Stabile di Napoli
In collaborazione con Festival Teatrale di Borgio Verezzi 2018

Durata: 1h 35’

Info: marcheteatro@legalmail.it

 

Età: dai 12 anni

 

Abstract

Un uomo orgoglioso, spaventato dalla possibilità di un tradimento, al punto da segregare in casa la ragazzina che ha deciso di prendere in moglie. Eppure, la forza dirompente dell’amore riesce a rovinare i piani di Arnolfo, protagonista di La scuola delle mogli di Molière: una commedia della metà del Seicento, riportata sulle scene da Arturo Cirillo. Una performance basata sulla lotta tra ragione e istinto, che con gli artifici propri del teatro, mette in ridicolo la misoginia di ieri e di oggi.

 

Che cosa dice alla nostra epoca un testo di quattro secoli fa come La scuola delle mogli, che stigmatizza sottilmente i matrimoni combinati e il ruolo subalterno delle donne? In che senso è ancora attuale, nel XXI secolo, dopo decenni di battaglie femministe e la legge sul divorzio?

In seguito alla pubblicazione, nel 1662, di questa commedia in cui si parlava di “corna” e strategie per imporre la fedeltà alle mogli, Molière ebbe problemi con la censura, nonostante godesse della protezione del Re Sole.

 

Al centro della pièce, un garbato contrasto tra Arnolfo e Crisaldo. Per il primo, la disgrazia peggiore che possa capitare a un uomo è di essere tradito dalla moglie; per il secondo, la ragione deve in ogni caso prevalere sulla gelosia e tenere a bada le reazioni istintive. Sta di fatto che Arnolfo, per evitare rischi sgradevoli, ha “sequestrato” la piccola Agnese, che ritiene orfana, e l’ha cresciuta nella solitudine e nell’ignoranza perché sia immune da innamoramento e amore.

Ha già deciso che proprio Agnese diventerà sua moglie. La affida, pertanto, alle cure di due servi fidati, che la custodiscono in una prigione dorata. Dalla sua finestra, però, Agnese nota Orazio, giovane di bell’aspetto e belle speranze. Tra i due scatterà la scintilla.

 

Nella messinscena di Arturo Cirillo, cui abbiamo assistito all’Elfo Puccini di Milano, l’elemento portante è la scenografia realizzata da Dario Gessati: una sorta di “casa di bambola” girevole, vivacizzata da colori pastello anche grazie alle luci variegatissime di Camilla Piccioni. È il mondo innocente di Agnese (Valentina Picello) di rosa confetto vestita, personaggio d’estrema delicatezza e sensibilità, vittima del gioco misogino di Arnolfo (lo stesso Cirillo). Questi, avvolto in un lungo pastrano color tappezzeria, s’illude di decidere il destino della giovane.

 

Rosario Giglio, ora nei panni di Crisaldo, ora, con parrucca bianca, nei panni del servo Alain, funge da contraltare ad Arnolfo: è personificazione della ragione che contrasta istinto e ipocrisia, oppure è allegoria del servilismo che adula. Come dire, che sono le circostanze e il bisogno a dar forma a un pensiero che, secondo i casi, è rigoroso e distaccato, oppure opportunistico e interessato.

Chi rimane sostanzialmente coerente, schiacciata sul cliché della servetta compiacente di plautina memoria, è invece Georgette, impersonata da una vivace Marta Pizzigallo. Infine, a portare sacchi di pepe in scena, c’è il garrulo Orazio (Giacomo Vigentini), innamorato d’Agnese. Orazio, ignorando di avere davanti proprio l’ignoto geloso che tiene sotto chiave Agnese, finisce per confessare proprio ad Arnolfo i tiri mancini che ha in mente per far sua la ragazza.

 

Ciò che colpisce in questa commedia è la ricchezza di sfumature dei personaggi. Tra l’attempato Arnolfo che manipola Agnese, facendone l’oggetto del proprio trastullo, e i due giovani innamorati, dovremmo parteggiare per questi ultimi.

Invece riusciamo a provare simpatia anche per Arnolfo: questo misogino aggrappato a un’immagine inveterata della donna e della famiglia, che si produce in una graffiante invettiva contro “cornuti” e donne che “cornificano”, è in fondo un disperato, oggetto dei rovesci dell’amore che a volte ci rende cinici e gretti

 

Molière concede l’onore delle armi. Anche nella perentorietà del lieto fine che premia le ragioni dei ragazzi, è pietoso verso l’antagonista. I personaggi e i loro caratteri sono sfumati e sfaccettati. Le contrapposizioni non sono mai manichee.

Se per la nostra epoca è sostanzialmente inverosimile il dipanarsi del canovaccio, è interessante invece il focus sul personaggio di Agnese, che compensa, con arguzia e istinto, l’ignoranza in cui è stata segregata. Lentamente giunge all’autodeterminazione, dotando sé stessa (e tutte le donne) di potere assertivo.

 

Non c’è dunque un’originalità di temi in questa commedia, sospesa fra teatro classico, autori francesi della tradizione e teatro dell’arte. Quello che è invece moderno è l’esuberanza di Molière. I personaggi sono ben caratterizzati. L’autore mette in scena i vizi degli uomini. Affiorano, tuttavia, anche risvolti dolorosi e tragici. Dicevamo di provare pena per Arnolfo, che cerca di costruire a tavolino l’amore ideale. E deve arrendersi, infine, all’idealità dell’amore.

 

Della messinscena è apprezzabile anzitutto la traduzione fresca di Cesare Garboli, fatta di frasi rapide, sapide, quasi versi in prosa. Curatissima l’interpretazione degli attori, giocata sul registro comico e farsesco, con acuti e lazzi che riempiono di sfumature e colori tutti i personaggi. In primis Valentina Picello con le sue posture scattanti, abilissima nell’incarnare ora l’innocenza sprovveduta, ora l’affiorare pervasivo del sentimento; disorientata e afflitta mentre legge il decalogo della moglie ideale, capolavoro di dabbenaggine che richiama i tratti tragicomici di simili prontuari coniati in epoca fascista. Impeccabile anche Arturo Cirillo nei panni di un burbero mai benefico, sostanzialmente ipocrita, incarnazione dell’amore come possesso, con quel fondo d’inadeguatezza e impotenza che ce lo rende umano.

 

Baldanzoso, a passi di hip hop, canticchiando le hit di Alan Sorrenti, svolazzante e leggero, Giacomo Vigentini è un simpatico bighellone pronto a risolvere con una zaffata d’ottimismo le situazioni ingarbugliate. Infine Pizzigallo e Giglio sono perfette maschere da commedia dell’arte.

Il pimpante gioco drammaturgico e registico è impostato sulla scenografia mobile, con la casetta d’Agnese soppalcata e le possibilità offerte dentro, sopra e intorno a quest’artificio girevole di logge, scale, botole e ninnoli che alimentano la dinamicità dell’azione.

Efficace anche la fantasia dei costumi (di Gianluca Falaschi) a esorcizzare ogni rigurgito di gelo e amarezza.

 

Perché lo consigliamo

La casa girevole della Scuola delle mogli è in fondo una metafora dell’amore attorno a cui tutto ruota. L’amore può essere fonte d’appagamento o motivo di frustrazione. Esalta o mortifica. Rende gli animi generosi o meschini

La natura doppia dell’amore è allegorizzata sia da Arnolfo (che si fa chiamare anche Signor Del Ramo, e qui il cognome acquisito con il titolo nobiliare ha una risonanza polisemica beffarda) sia dai due personaggi incarnati da Giglio (l’amico bonario e il servo compiacente).

 

Dietro l’andamento buffonesco dell’azione si nasconde il bisogno morboso di controllo di un uomo su una donna inerme. Sarebbe una forzatura scorgere, dietro la vicenda, i fantasmi della pedofilia o della violenza di genere. La potenza del teatro classico sta nel prevenire certe derive, immunizzandoci. Non occorre percorrere l’intero sentiero del misfatto per giungere a condannare il vizio e scoprire, attraverso l’opera, istanze morali.

 

Arnolfo non abusa di Agnese, ma appare freddo e illogico nei propri esperimenti. Quando l’obiettivo gli sfugge dalle mani, piomba nell’angoscia. Ma l’arte di Molière e la commedia della vita, unite alla regia istrionica di Cirillo, scongiurano anche in questo caso ogni velo di tristezza.

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