• mercoledì , 1 Maggio 2024

Il fascino della cultura molteplice e senza modelli

L’utopia del migliore dei mondi possibili e il suo forte ancoramento all’azione nel mondo presente

di  Antonio  Errico

 

La condizione che caratterizza la produzione e il consumo culturale sembra essere oggi quella della provvisorietà

 

Probabilmente la bellezza sta tutta nella possibilità di scegliere nella molteplicità

 

La cultura di questo tempo vuole occhi aperti. Con gli occhi aperti si vedono forme di sapere cangianti, variopinte, variegate

 

Occorre chiedersi di quale formazione avrà bisogno fra quindici anni chi adesso ne ha dieci, e progettare i processi formativi in  conseguenza di quei bisogni

 

I contesti di lavoro richiedono e pretendono una disponibilità alla riconfigurazione, alla riconversione, al riadattamento, anche alla mobilità geografica

 

L’integrazione delle culture deve superare gli ambiti delle teorie per farsi prassi quotidiana, perché si è fatta prassi quotidiana per le strade di ogni città

Pur nell’imperfezione, nella incoerenza, nella provvisorietà, il migliore dei mondi possibili può esistere

 

Ogni bambino pensa ad un buon lavoro non ad un cattivo lavoro. Pensa ad un lavoro che si volge a favore di se stesso e degli altri

 

Allora bisogna coltivare l’utopia di costruire il migliore dei mondi possibili per poter poi ottenere un mondo equilibrato

 

Abstract

La molteplicità di teorie e di metodi nelle scienze umane, solitamente produce profili di cultura meglio articolati, formae mentis flessibili, creative, armoniose,  intelligenze capaci di aprirsi al nuovo, all’altro, di andare oltre l’ordinario, l’acquisito.

In base ai tempi e alla temperie culturale, bisogna scegliere percorsi che consentano una formazione aderente non solo alle fisionomie del presente ma anche (o soprattutto) agli scenari che si profilano all’orizzonte.

Bisogna coltivare l’utopia di costruire il migliore dei mondi possibili per poter poi ottenere un mondo equilibrato.

 

madre figlioC’è un fascino a volte anche indecifrabile nelle cose che passano rapidamente. Forse perché in qualche modo sono metafora dell’esistenza; forse perché lasciano  il posto ad altre cose, a nuove esperienze; forse perché in fondo, anche inconsciamente,  all’uomo non  fa piacere che quello che costruisce duri più a lungo del pensiero che lo ha generato, della mano che lo ha  composto.

Passa tutto davvero molto in fretta, spesso senza nemmeno lasciare traccia, oppure lasciandone una così, indeterminata, confusa.

Le cose della cultura non fanno differenza. Passano rapidamente, come tutte le altre. Però in questo tempo passano assai più rapidamente che in qualsiasi altro tempo.

Si pubblicano libri che per una settimana esplodono in un successo planetario. Poi, dopo qualche mese, a malapena ricordiamo chi sia l’autore. Accade la stessa cosa per un film, un disco. Sembra che ogni cosa si consumi, che bruci in un fuoco di novità costantemente alimentato.

C’è un fascino in questo, certo. Ma se pensiamo alla funzione di energia collettiva che le espressioni della cultura assumono in un contesto sociale, allora viene il sospetto che in questo tempo manchino sistemi che si costituiscano come riferimento.

Si insinua il sospetto che la condizione che caratterizza la produzione e il consumo culturale sia quella della provvisorietà. Coerentemente con tutto il resto.

Se rivolgo a me stesso la domanda su quale sia in questi anni la corrente letteraria o filosofica, o sociologica, o pedagogica, o psicologica, o antropologica, che rispetto alle altre assume a livello sociale una più significativa rilevanza, ho molte difficoltà a trovare una risposta.

Quando l’ho chiesto ad altri che hanno molte e più approfondite   conoscenze di quelle che ho io rispetto alla letteratura e alla pedagogia, per esempio, ho riscontrato la stessa difficoltà nella risposta.

Si dice: sono cambiati i sistemi, sono cambiati i linguaggi, sono cambiati le modalità e gli strumenti con cui vengono proposti i sistemi, vengono veicolati i linguaggi.

E’ vero. Ma la domanda ritorna: quale sistema, quale linguaggio, ha maggiore rilevanza; quale incide più decisamente nell’orientamento dei costumi, nella circolazione delle idee, nella conformazione dei comportamenti.

Se si volesse uscire dall’impasse, si potrebbe dire che la pluralità di forme, di manifestazioni, di teorie, con le quali ci si confronta, impedisce di trovarne una, o due, che rappresentino un modello.

Poi si potrebbe ripetere che anche questo è bello. Davvero. Molte idee e molte parole sono più belle di poche idee e di poche parole. Molti esemplari, molti modelli, sono più belli di pochi esemplari, pochi modelli. La pluralità argina l’egemonia, favorisce il confronto.  Bello è un termine vago. Ma qui sta per attraente, e anche per opportuno, per  favorevole, conveniente.

La predominanza massiccia di una teoria e di un metodo nell’educazione, nella formazione, nell’istruzione, per esempio, solitamente in passato ha prodotto distorsioni. In questo tempo, la molteplicità di teorie e di metodi nelle scienze umane, solitamente produce profili di cultura meglio articolati, formae mentis flessibili, creative, armoniose,  intelligenze capaci di aprirsi al nuovo, all’altro, di andare oltre l’ordinario, l’acquisito.

Resta però il fatto che ogni espressione della cultura dura poco: non riesce a strutturarsi, a consolidarsi. Una proposta viene quasi immediatamente sostituita da un’altra, un’interpretazione da una interpretazione diversa e spesso contraria, una teoria da un’altra teoria.

Ma se, indubbiamente, c’è il rischio che la conoscenza rimanga sempre superficiale, altrettanto indubbiamente c’è il vantaggio di una possibilità di scegliere quale espressione abbia una più coerente relazione con la finalità, il bisogno, oppure soltanto con il  desiderio. Si può scegliere quale strada percorrere, si può scegliere di percorrerne più di una, se farlo lentamente o in fretta. Si può scegliere in quale punto indugiare, che cosa approfondire.

Ecco, probabilmente la bellezza sta tutta nella possibilità di scegliere nella molteplicità.

Se si entra in una libreria con centinaia di volumi anche disordinatamente lasciati sui banconi, sugli scaffali, in un primo momento si avverte un senso di disorientamento. Ma subito dopo si avverte il piacere della scoperta inaspettata. Forse è proprio una libreria in cui tutti i libri sono confusi, senza le etichette che indicano il genere attaccate agli scaffali, la rappresentazione più efficace delle forme di sapere della contemporaneità. I generi si mescolano, si contaminano, si riproducono, e allora per scegliere c’è bisogno di intuire, e dopo aver intuito di verificare. E’ inevitabile che l’intuizione a volte sia ingannevole. Ma in ogni caso si è conosciuto qualcosa di cui non si avrebbe avuto conoscenza.

Andare ad occhi chiusi. Ecco, questo non possiamo permettercelo più. Non abbiamo più la possibilità di fare le scelte, come si dice, ad occhi chiusi, presumendo di conoscere perfettamente, per lunga consuetudine, quello che scegliamo. Anche perché andare ad occhi chiusi verso qualsiasi luogo della vita e quindi verso qualsiasi luogo della cultura, non di rado fa sbattere la testa contro qualche muro che qualcuno ha alzato solo un istante prima. Ripetere e ripetersi in esperienze senza rinnovarle e rinnovarsi, oltretutto annoia.

La cultura di questo tempo vuole occhi aperti. Con gli occhi aperti si vedono forme di sapere cangianti, variopinte, variegate, polivalenti, fascinose, continuamente in divenire, che proliferano, trasfigurano significanti, significati, simboli, che si protendono verso territori concettuali di frontiera o inesplorati, che si esprimono con grammatiche inedite.

A volte sono forme ambigue, sfuggenti; a volte fenomeni senza coesione,  sfilacciati, anche effimeri.

Ma certamente un sapere fluido è preferibile ad un sapere codificato a tal punto da diventare un rigido vincolo del pensiero.

Si dice – e quello che si dice è vero – che la formazione costituisca la condizione essenziale per risolvere i problemi di una civiltà e per garantire ad essa uno sviluppo.

Poi, certo, in base ai tempi e alla temperie culturale, bisogna calibrare il concetto, scegliere percorsi che consentano una formazione aderente non solo alle fisionomie culturali del presente ma anche (o soprattutto) agli scenari che si profilano all’orizzonte, che non sempre è nitido, che anzi, a volte, è fosco.

Probabilmente non sarebbe pedagogicamente corretto investire ogni risorsa tenendo conto esclusivamente delle situazioni che si presentano come contingenti, meno che mai di quelle che hanno il carattere delle emergenze per le quali occorre la formazione già acquisita, la competenza che sia in grado di risolvere i problemi più o meno immediatamente. Probabilmente occorre chiedersi di quale formazione avrà bisogno fra quindici anni chi adesso ne ha dieci, o fra dieci chi adesso ne ha quindici, e progettare i processi formativi in  conseguenza di quei bisogni. Forse guardarsi intorno non è sufficiente. Forse è indispensabile riuscire a vedere oltre l’intorno.

Già. Di quale formazione ci sarà bisogno in un futuro più o meno prossimo: quando le competenze tecnologiche, che in questo tempo sembrano necessarie, saranno di gran lunga superate perché cambieranno inevitabilmente le modalità di impiego e gli strumenti, ma soprattutto i codici, i linguaggi; quando il mercato del lavoro si sarà completamente trasformato; quando anche le forme dell’economia si saranno trasformate; quando sarà indispensabile conoscere altre lingue; quando anche il rapporto tra le persone e la relazione con il lontano e con il vicino avverranno attraverso canali diversi da quelli con cui avvengono ora; quando saranno cambiate le logiche della politica, le forme di governo e di partecipazione, le regole e le norme sulle quali si strutturano le convivenze.

Risposte certe non ce ne ha nessuno, e chi eventualmente dicesse di averne sarebbe un impostore. Forse si può soltanto ipotizzare che ci sarà bisogno di una formazione capace di rigenerarsi continuamente, di un pensiero che sia in grado di rimodularsi in base alle situazioni culturali, politiche, sociali, di una disponibilità al continuo confronto con se stessi, con gli altri, con il nuovo, l’incognito, l’inatteso.

Quasi vent’anni fa, Lanfranco Rosati (1) riprendeva un concetto di  Ascani secondo cui i saperi settoriali diventano un ostacolo quando i contesti lavorativi subiscono cambiamenti rapidi e profondi, quando la mobilità geografica diventa una possibilità reale, quando l’occupazione diventa un progetto da costruire e da inventare e non una realtà da attendere, quando il benessere diventa una condizione precaria e si fanno pressanti le nuove povertà, quando la marginalità sociale si diffonde e solleva l’interrogativo del senso dell’esistenza, quando nella formazione – anche professionale – si diffonde una domanda di nuova qualità della vita, di nuovi modelli di esistenza, di nuova cittadinanza sociale.

In vent’anni le condizioni cui si riferiva Ascani sono diventate strutturali. I contesti di lavoro richiedono e pretendono una disponibilità alla riconfigurazione, alla riconversione, al riadattamento, anche alla mobilità geografica talvolta spontanea, altre volte indotta dalla mancanza o dalla scarsità delle possibilità, delle occasioni. Non solo: il concetto di precarietà è penetrato, purtroppo, nella dimensione esistenziale e il lavoro molto spesso occorre costruirselo giorno dopo giorno con coraggio e fantasia. I territori delle povertà si sono allargati. Le figure della povertà si sono ingigantite. Le ombre del disagio si sono fatte più lunghe, incombenti. (Ci si dice cambierà. Certo che deve cambiare. Ma bisogna che ciascuno faccia qualcosa perché cambino le cose, molte cose). Sono mutate o stanno mutando le percezioni e i significati di benessere, di qualità della vita. Forse un po’ si sta diradando tutta quella fumea di superficialità che negli anni Ottanta e Novanta ci ha annebbiato la vista.

Con questi mutamenti la formazione deve confrontarsi. Oltre che con una nuova e più ampia prospettiva che forse non può più limitarsi agli spazi sociali e culturali dell’Europa. Si deve peraltro prendere atto che l’integrazione delle culture deve superare gli ambiti delle teorie per farsi prassi quotidiana, perché si è fatta prassi quotidiana per le strade di ogni città, in molti luoghi di lavoro, attraverso l’incontro dei linguaggi, delle storie, delle esperienze.

Ma poi, e forse innanzitutto, non si può più fare a meno di pretendere una formazione sostanziale: apprendimenti che hanno sostanza, che hanno consistenza, durata nel tempo, che siano applicabili  in contesti e circostanze diversi, che riescano a rispondere alle domande complesse che provengono dalle realtà del lavoro e dell’esistenza di cui il lavoro fa parte.

In questo, più che in ogni altro tempo, le conoscenze e le competenze diventano rapidamente obsolete. Allora diventa indispensabile una formazione che consenta l’innesto di altre conoscenze, di nuove esperienze di apprendimento. Quando si parla di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, in fondo non si fa altro che determinare una coincidenza tra la conoscenza e l’esistenza. Che poi è una cosa antica, forse anche un fatto naturale. Non c’è un solo istante della vita in cui non si apprende, si sa. Ma, probabilmente, al di qua di quella che è la conoscenza delle cose ultime, definitive, che appartengono alla profondità dell’essere e della coscienza, l’esigenza che si avverte riguarda una consapevolezza al cambiamento, alla flessibilità di pensiero, a quella che qualcuno chiama con il vecchio nome di creatività. Il creare l’inesistente dall’esistente, il nuovo dal vecchio, o il trasformare, il trasfigurare, il trasmutare, il riformare, il rifondare il sapere. Di questa creatività oggi abbiamo bisogno. Di questa avremo sempre più bisogno domani, domani l’altro.

Di una costante condizione di creatività: nell’essere, nel sapere, nel lavorare.

Nel penultimo capitolo di Cinque chiavi per il futuro (2), Howard Gardner formula ai lettori e a se stesso questa domanda: in che genere di mondo vorremmo vivere, se ignorassimo quali saranno in quel mondo le nostre risorse e la nostra condizione?

Ora, sappiamo tutti che non esiste il migliore dei mondi possibili. Lo sappiamo perfettamente. Eppure ciascuno si figura l’immagine di un mondo in cui vorrebbe vivere e nel quale vorrebbe che vivessero almeno le persone che gli sono care. Spesso, in quella figurazione trasferisce alcune cose del mondo che conosce: certe creature, una bellezza, alcune storie, un paese, qualche incantevole contraddizione; se le porta dietro perché è da quelle cose che vuole generare un mondo migliore, da una combinazione sapiente di vecchio e di nuovo vorrebbe che si sviluppasse una condizione dalla inevitabile e attraente imperfezione ma che si trasforma in continuazione nel tentativo e nella tensione di esaudire i desideri di chi lo abita.

Non esiste il migliore dei mondi possibili ma il progresso è determinato sempre dal sogno ad occhi aperti che gli uomini fanno di quel mondo.

Quando Gardner risponde, per se stesso, alla sua domanda, dice che, potendo scegliere, vorrebbe vivere in un mondo caratterizzato dal “buon lavoro”.

Non è difficile comprendere i motivi della risposta. Freud ha identificato nell’amore e nel lavoro i fattori principali di una vita soddisfacente.

Ecco, dunque, che per ognuno il mondo migliore è quello che gli consente di realizzarsi nell’amore autentico e nel buon lavoro.

Probabilmente non esiste uomo, non esiste donna, che nella stagione dell’infanzia non abbia fantasticato il proprio buon lavoro. Poi, qualcuno riesce a dare concretezza a quella fantasia, qualcun altro no, forse perché a un certo punto si cambia idea o forse perché i casi della vita sono tanti e molto spesso anche indecifrabili, ma quella fantasia è una delle poche cose di cui rimane una traccia profonda nella memoria. Per sempre.

Non è un caso e non è insignificante che ad un bambino si domandi che cosa vuole fare da grande: lo si domanda perché si ha consapevolezza che un’idea – forse più di una- gli gira e gli rigira nella testa; lo si domanda perché si ha il nitido ricordo di un’idea che ci girava e rigirava nella nostra testa, quando abbiamo avuto la sua età.

Allora, pur nell’imperfezione, nella incoerenza, nella provvisorietà, il migliore dei mondi possibili può esistere. Non può essere quello che assicura l’amore che si desidera, certo, perché la realizzazione di quel desiderio probabilmente dipende da congiunture astrali, ma può essere quello che crea le condizioni, i presupposti, le opportunità, perché ogni bambino possa realizzare il desiderio del suo buon lavoro.

Così il migliore dei mondi possibili struttura un sistema di formazione in grado di garantire a ciascuno percorsi che assecondino l’inclinazione, per esempio; realizza canali per l’accesso al mondo del lavoro liberi dagli ingombri che sfiancano con la fatica della rimozione; favorisce l’inserimento, l’approfondimento delle conoscenze, il costante adeguamento delle abilità alle nuove condizioni;  sostiene la motivazione, sviluppa processi virtuosi di promozione delle personalità e delle competenze.

Il migliore dei mondi possibili compie ogni sforzo per evitare che si creino sacche di precarietà, di disoccupazione, di alienazione, programmando modalità razionali di accesso al lavoro e di uscita da esso, ma anche forme di mobilità fra i diversi settori.

Può sembrare senza dubbio paradossale assumere a riferimento le caratteristiche del buon lavoro in un tempo che richiede di confrontarsi con le emergenze.

Ma se adesso ci si trova nella condizione che tutti conoscono, se si abita in un mondo che se non è il peggiore comunque non è il migliore e neppure il più adeguato dei mondi possibili, è per il fatto indubitabile che si sono commessi degli errori.

Forse al migliore dei mondi possibili, inteso nel senso del buon lavoro, si tende cominciando a verificare quando e dove sono stati commessi gli errori, non tanto per attribuire responsabilità ma per fare in modo di non commetterli di nuovo.

Anche considerando il fatto che è dal buon lavoro che deriva una buona società.

Ogni bambino pensa ad un buon lavoro non ad un cattivo lavoro. Pensa ad un lavoro che si volge a favore di se stesso e degli altri, non ad un lavoro che danneggia qualcuno o qualcosa. Per cui, creare un sistema che permetta ad ogni giovane, ad ogni adulto, di svolgere il buon lavoro dei suoi desideri, significa eliminare o comunque ridurre notevolmente le cause e le occasioni di devianza, di disadattamento, di emarginazione.

Allora bisogna coltivare l’utopia di costruire il migliore dei mondi possibili per poter poi ottenere un mondo equilibrato.

Non è una legge naturale e neppure una legge culturale che le generazioni che vengono si ritrovino in condizioni peggiori delle generazioni che vanno. Le leggi naturali, culturali, economiche, sociali, politiche anche, dicono solitamente ed esattamente il contrario: dicono che le generazioni che vanno lasciano a quelle che vengono una eredità di progresso.

Un esempio: nel Novecento l’Europa ha vissuto due guerre tremende, ha subito dittature devastanti, ma le generazioni che hanno attraversato le guerre, che hanno mangiato miseria, che sono cresciute sugli argini frananti, a quelle che giungevano dopo di loro hanno lasciato almeno tre cose fondamentali, essenziali: la libertà, la democrazia, il benessere.

Ha ragione Gardner, dunque, quando considera il buon lavoro come una chiave per il futuro. Senza questa chiave il futuro rimane inaccessibile, o accessibile soltanto in situazioni di privilegio, a coloro che  riescono ad impossessarsi della chiave, negando il suo uso agli altri.

Ma se sul migliore dei mondi possibili si possono avere innumerevoli idee, per poter ricavare una definizione del peggiore è sufficiente pensare ad un mondo fondato sui privilegi dei pochi.

 

BIGLIOGRAFIA

  1. Lanfranco Rosati, Formazione e didattica tra offerta e domanda, La Scuola, Brescia, 1995, p. 17

 

  1. Howard Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano, 2006 p. 135,

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