• giovedì , 10 Ottobre 2024

Scienza. Poesia. Oltre i limiti della conoscenza

Di Antonio Errico

Sono passati più di vent’anni dall’inizio del secolo che corre. A volte abbiamo avuto l’impressione, forte, dentro, sulla pelle, di vivere ancora nel tempo in ogni senso straordinario del Novecento. A volte abbiamo avuto l’impressione che il tempo del Novecento si fosse fatto immensamente e irrimediabilmente lontano.

A volte ci è sembrato che non fosse cambiato nulla, che il passaggio avesse soltanto un significato per il calendario e per nessun’altra condizione. A volte ci è sembrato che il passaggio avesse trasformato radicalmente le nostre esistenze, che con il secolo nuovo, con il nuovo millennio, avesse avuto inizio un’epoca che con quella precedente non potesse avere nessun paragone.

In fondo le incertezze sono sempre quelle, riguardano sempre le stesse situazioni. Anche gli sbandamenti, in fondo, sono sempre quelli, i disorientamenti, le scelte coraggiose, i conti che tornano o non tornano, le rinunce, le occasioni perdute e quelle prese a volo. In fondo sono sempre quelle le passioni.

Così a volte ci sembra che sia rimasto tutto uguale e altre volte ci sembra che tutto sia cambiato, che nulla sia e possa essere più nel modo in cui è stato fino a vent’anni fa e poco più. Ma il tempo passa per questo: per cambiare tutto intorno a noi e forse anche tutto dentro di noi, lasciandoci soltanto il desiderio che almeno l’essenziale resti come vogliamo.

Ma le nostre abitudini sono cambiate. Le nostre forme di pensiero, i nostri linguaggi, le nostre grandi e piccole narrazioni, le nostre giornate, gli strumenti del comunicare sono cambiati. Anche il nostro confrontarci con i fatti della Storia, con le sue coordinate e con le sue metafore.

Ma ci sono due cose che più di tutte le altre sono cambiate: la nostra memoria e la nostra idea di futuro. Le due condizioni sulla quali si fonda il presente di ciascuno.

Forse la nostra memoria è diventata più fragile. Si è sfilacciata. O forse si è fatta distratta, perché siamo attratti, coinvolti, probabilmente anche travolti dalle circostanze del presente. Talvolta si avverte la sensazione che la memoria non serva a niente, né soggettivamente né collettivamente. Non solo. Più o meno consapevolmente abbiamo delegato alla tecnologia la possibilità di ricordare per noi. Basta sfiorare il tasto di un computer e i fatti, le storie, ritornano. Ricordiamo così. Però si potrebbe anche pensare che così non è ricordare. Avere memoria significa poter confidare sulla conoscenza che viene dall’esperienza personale o mediata dalla formazione culturale. Significa essere in grado di ricostruire gli accadimenti attraverso la connessione di elementi, saper riconoscere le analogie e le differenze di quello che accade nel tempo, riscontare le relazioni fra le cause e gli effetti. Forse oggi la nostra memoria non è strutturale. E’ una condizione episodica, occasionale, anche casuale. Ricordiamo per caso. Fino ad un certo punto, invece, che si potrebbe anche individuare nei primi anni della seconda metà del Novecento, la memoria è stata un progetto che rappresentava la struttura sulla quale si fondava un altro progetto: quello del futuro.  In questo tempo, l’idea che abbiamo di futuro ha la stessa esilissima consistenza che ha la memoria. E’ come l’ombra di una figura che galleggia nella lontananza. Indistinta, confusa, vaga. Che non riconosciamo. Che sfugge ai nostri concetti, lasciandoci soltanto la possibilità di una percezione quasi inconsistente. Possiamo soltanto proiettarci fino a domani: non in un tempo più lungo, con una visione più ampia. Non abbiamo la possibilità di pensare un progetto. Ci si dice che si prenderà quello che viene, nel modo in cui viene. Certo, potrebbe anche essere una forma di saggezza, se provenisse da una consapevolezza di come si dipana l’esistenza. Però non è da una consapevolezza che proviene. Attraversiamo un presente che non ha o che ha deboli tensioni di proiezione e di prospettiva. Quasi che ogni promessa di  futuro sia diventata difficilmente credibile e praticabile. Quasi che qualcosa di estremamente complesso e non ancora decifrato costringa a vivere rannicchiati mentre il tempo ci scorre  addosso e intorno, con la sua solita indifferenza, con una più sfrontata prepotenza.  Forse abbiamo più paura e meno aspirazioni. Stiamo sempre più idolatrando il caso. L’orizzonte delle attese si è abbassato fino ad arrivare ai nostri piedi, e si è fatto opaco. In alcuni casi si è sfrangiato e in altri  lacerato il senso dell’appartenenza ad una dimensione collettiva che in qualche modo costituiva un riferimento e suscitava una sensazione di protezione. Ci si ritrova a riformulare costantemente  concetti, prassi, tradizioni, a subire crisi e traumi senza precedenti.

Sono passati più di vent’anni dall’inizio di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio. Per alcuni aspetti, abbiamo definitivamente chiuso il conto con il Novecento. Per altri aspetti, invece, il conto resta ancora aperto e forse resterà aperto per sempre o comunque per molto tempo ancora. Perché a quel secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, dobbiamo molto di quello che abbiamo e di quello che siamo. O forse dobbiamo tutto. Alla sua scienza, alla sua letteratura, al progresso, allo sviluppo, al benessere che ha creato, dobbiamo molto e forse tutto. E’ per questo che dobbiamo avere memoria. Perché dalla coscienza delle virtù che ha avuto si possano sviluppare altre virtù; perché con la coscienza degli errori commessi si possa fare in modo di non commetterli più.

Come Robinson Crusoe

Spesso ci si chiede, per diverse e ovvie o meno ovvie ragioni, quali saperi saranno necessari, essenziali, indispensabili nei tempi che verranno, che cosa sarà richiesto o preteso dai contesti del sociale, dall’universo del lavoro, dalle condizioni che caratterizzano le relazioni interpersonali. Ci si chiede se basteranno gli apprendimenti che si è riusciti a conquistare fino ad un certo punto attraverso i territori della formazione che ciascuno avrà attraversato, o se ci sarà bisogno di una conoscenza sempre nuova e ulteriore, di una disponibilità costante a tendersi verso orizzonti che fanno intravedere nuove occasioni e possibilità di sapere, nuovi paesaggi di culture. 

Spesso ci si chiede questo e ciascuno dà, anche solo a se stesso, delle risposte che a volte, o spesso, in realtà diventano altre domande. Perché è complicato, è difficile fare previsioni. I contesti sociali mutano rapidamente le loro configurazioni. Il lavoro si trasforma in continuazione e di conseguenza mutano le forme e gli strumenti con cui si realizza. Le relazioni interpersonali sono inevitabilmente  condizionate da tutte le situazioni che coinvolgono ogni singola persona. I fatti che accadono, i fenomeni che si verificano esigono una molteplicità di interpretazioni.

Allora rispondersi alla domanda che riguarda i saperi che saranno essenziali domani l’altro, o probabilmente anche domani, diventa pressoché impossibile o comunque oltremodo azzardato.

Per esempio, si può dire: le lingue. Ma è una risposta troppo facile.  Non basta. Bisogna chiedersi e rispondersi quali lingue, senza potersi permettere di dare per scontato che le lingue di oggi che diciamo dominanti e funzionali restino dominanti e funzionali in un futuro anche prossimo.

Si potrebbe anche  rispondere le conoscenze scientifiche, tecnologiche, e qualcuno addirittura potrebbe osare e sussurrare quelle umanistiche, comprese le lingue che inesattamente vengono definite morte ma che non lo sono per niente perché con le loro grammatiche offrono la possibilità di comprendere e interpretare il mondo che ci gira intorno. Poi qualcuno potrebbe osare ancora di più e ripetere, non sussurrando ma ad alta voce, che sarebbe anche ora di smetterla con l’arbitraria separazione di sapere umanistico e sapere scientifico, per il fatto che la conoscenza è tale quando rappresenta l’integrazione di elementi che hanno provenienze diverse. 

Le risposte che si possono dare alla domanda sono talmente tante che alla fine del conto si ha l’impressione che una risposta non si sappia dare. Ma se proprio ci si volesse ostinare a trovarne una, forse si potrebbe far riferimento a quella conformazione della personalità e della conoscenza che viene definita con la denominazione di creatività.

Allora, quando sembra che si sia trovata la risposta, la situazione si fa ancora più complicata, perché ognuno ha una propria idea, e spesso anche più di una, di che cosa sia la creatività. Anche in questo caso ogni idea può essere giusta a condizione che si spogli il concetto di creatività da ogni velo di romanticheria, di spontaneismo, che lo si affranchi da ogni pregiudiziale. La creatività non è esclusa da nessuna sfera del sapere. 

Albert Einstein non fu meno creativo di Dino Campana e Dino Campana non lo fu meno di Albert Einstein.

Ciascuno ha una propria idea di che cosa sia creatività, dunque. Qualcuno per esempio ritiene che creatività significhi essere capaci di far agire le conoscenze che si hanno in modo da acquisirne altre che consentano di salvarsi la vita. Come Robinson Crusoe. Adattandosi a situazioni e luoghi sconosciuti, ricalibrando i propri tempi, confrontandosi con creature che hanno storie diverse. Ricominciando tutto daccapo quando i fatti che accadono impongono di ricominciare tutto daccapo. Forse creatività significa fare esperienza della riconversione, della rideterminazione, della riformulazione di conoscenze e  della rigenerazione delle competenze. Forse significa essere capaci di mettere a soqquadro l’acquisito.  Forse, per certi aspetti, il concetto di creatività si potrebbe associare a quello di cultura secondo la definizione che in Auto da fé propose  Eugenio Montale: la cultura è quello “che rimane nell’uomo quando ha dimenticato tutto quello che ha appreso”. Per cui può ricominciare ad imparare tutto di nuovo. Con la stessa disponibilità, la stessa tensione, la stessa passione di quando ha imparato una volta.

Allora, forse domani l’altro oppure anche domani, servirà una creatività intesa come conoscenza aperta, disposta ad accogliere nuovi espressioni culturali, nuovi linguaggi, nuovi pensieri. Forse servirà una conoscenza che dia la possibilità di assumere molteplici prospettive, di ridisegnare gli spazi dell’esistenza, di cercare un diverso equilibrio per i suoi tempi. Soprattutto servirà un sapere che non rifiuti mai il nuovo che arriva, che non diffidi dei significati sconosciuti, che riesca a contemperare le storie che sono state e quelle che attraversano il presente con quelle che si immagina possano accadere. Forse servirà una conoscenza che sia capace non solo di andare oltre se stessa, ma anche di rinunciare alle sue strutture per rifondarsi su strutture diverse.

Forse servirà l’esperienza di una creatività come avventura straordinaria nel proprio tempo, nella propria esistenza, protesa verso il futuro che si dispiega all’orizzonte.

Forse servirà questo. Forse servirà altro che adesso non si riesce nemmeno a immaginare.  

Quell’andatura incerta che chiamiamo esperienza

C’è una poesia di Emily Dickinson che nella traduzione di Margherita Guidacci dice così:

“Da un’asse all’altra avanzavo/così lenta, prudente./Sentivo le stelle sul capo,/e sotto i piedi il mare./Questo solo sapevo: un altro passo/poteva essere l’ultimo./Ed avevo quell’andatura incerta/che chiamiamo esperienza”.

La certezza che si acquisisce di qualcosa deriva da un senso di vuoto, da un’ incertezza del passo, da una paura che l’asse del ponte che si sta attraversando possa non tenere, consegnandoci  all’abisso di un’esperienza non maturata, di una mancata conoscenza.

Ma non sempre e non necessariamente si giunge alla conoscenza con  l’esperienza diretta dell’attraversamento del ponte. Anzi, molto spesso e per molte questioni, la conoscenza è l’esito  di un’ esperienza indiretta, mediata, ricevuta in consegna dalla cultura alla quale si appartiene. Perché non si può fare esperienza di tutto. Sarebbe come inventare continuamente la ruota e scoprire continuamente il fuoco. Invece si intraprende un cammino affidandosi ad una conoscenza della strada che altri hanno fatto, per continuare quella stessa o per fare esperienza di altre strade nuove. Succede così, pressappoco, per tutte le cose.

Eppure, guardandosi intorno, alle volte si ha l’impressione che dell’esperienza non si tenga alcun conto. Nemmeno quando  può assumere un significato essenziale per il dipanarsi dei destini di tutti e di ciascuno. Così ogni volta si inventa la ruota e si scopre il fuoco ogni volta. Così ogni volta si attraversa lo stesso ponte con l’andatura incerta e la paura che un’asse non tenga.

Non si attribuisce valore all’esperienza degli altri. Anzi, a volte l’esperienza degli altri  infastidisce, annoia, si pensa che faccia  perdere tempo, che distolga dall’impegno che richiede il cammino. Si presume di poter fare tutto da soli, che non occorrano i riferimenti alle cose fatte bene e agli errori già commessi. Forse perché si suppone di essere migliori, di non poter sbagliare, di possedere la conoscenza, la competenza, l’abilità di attraversare il ponte. Così si procede con la presunzione di fare meglio di quanto altri siano riusciti a fare, ignorando che quello che appare esclusivo e nuovo  molto spesso è vecchio quanto basta ed abbastanza comune.

Poi in qualche caso accade che un’asse non tenga. Guardandosi intorno, ci si rende conto che in qualche caso accade. Guardandosi intorno, si potrebbero rintracciare prove in ogni contesto del sociale.  

Ma una società, una civiltà, senza esperienza si destina inevitabilmente alla condizione della superficialità. Perché non può contare su quella stratificazione di concetti e di significati che consente di avere conoscenza e consapevolezza della Storia, delle cause, dei motivi, dei moventi da cui sono determinate le situazioni del presente con cui ci si ritrova a confrontarsi, degli effetti che quelle situazioni possono produrre, delle soluzioni ai problemi che si possono trovare.

Una società, una civiltà, che rifiuta il patrimonio dell’esperienza è costretta ad improvvisare giorno per giorno, problema per problema, i modi con i quali ricucire gli strappi, senza potersi concedere il privilegio di progettare, di pensare alla costruzione di nuove espressioni culturali, di strutture semantiche sulle quali affidare un nuovo pensiero. Le soluzioni improvvisate, quelle che non fanno riferimento all’esperienza, non sono mai durature.  

Per poter andare avanti, è necessario saper guardare indietro. Ogni progresso è una derivazione, una conseguenza del passato. Quindi dell’esperienza. Sempre. Quando si improvvisa la soluzione di un problema, prima o poi il problema si ripresenta, a volte anche in maniera prepotente, aggressiva; accerchia, pone l’assedio, impone la resa senza condizioni. 

A volte si ha necessità, o soltanto desiderio, di correre, per esempio, di rendere più rapidi i processi. Uno che di correre se ne intendeva e che si chiamava Ayrton Senna diceva che, quando pensi di avere un limite, provi a toccare quel limite. A un certo punto accade qualcosa e immediatamente riesci a correre un po’ più forte: te lo permette il potere della tua mente, la tua determinazione e la tua esperienza. Già: l’esperienza. Perché la tua mente può spingerti ad aumentare la velocità e la determinazione può assecondare la tua mente, ma se non hai esperienza di cosa vuol dire e di come si fa a correre a 299 chilometri l’ora, non puoi pensare di poter correre a 300.

Il criterio che vale per l’esperienza soggettiva vale anche per quella collettiva, per quella di una società, di una civiltà.

Altri hanno attraversato il ponte prima di coloro che si apprestano ad attraversarlo. Hanno fatto esperienza di quanto tengano o non tengano le assi; hanno fatto esperienza dell’incertezza, del vuoto che si spalanca sotto i piedi, della paura che annoda il respiro. Molto spesso hanno raccontato la loro esperienza dell’incertezza, del vuoto, della paura, e del sollievo che hanno provato quando l’attraversamento si è concluso, quando hanno messo i piedi sulla terraferma.

Forse è dal racconto della loro esperienza che chiunque si ritrova ad attraversare il ponte deve cominciare. Da quella che è conoscenza, perchè il racconto porta sempre conoscenza. Se invece arrogantemente  si pensa di poterne fare a meno, se si pensa che la memoria di quello che è stato non abbia senso e non abbia funzione, allora si deve necessariamente mettere in conto che un’asse possa non tenere e che si precipiti nel vuoto, irrimediabilmente.   

Nella profondità di una poesia

Accade a volte che dai poeti vengano espressioni che consentono di comprendere il senso profondo degli eventi, dei tempi che si vivono, perfino degli scenari che si profilano all’orizzonte.

Il loro mestiere consiste nell’ oltrevedere, nel proporre come condizioni di possibilità quelle che gli altri considerano impossibili, come concretezze probabili quelle che gli altri considerano assolute improbabilità.

Loro scaraventano il pensiero al di là delle frontiere stabilite  dalla logica, dalla possibilità, dalle convenzioni, dal pensiero consueto, dalle comuni opinioni, e nella loro visionarietà, nella  sfrenatezza della loro immaginazione, configurano visioni che poi a distanza di tempo, spesso di molto tempo, si ripresentano come forme  della realtà.

Corteggiatori delle verità, a volte riescono a sedurle e a farsi rivelare una parola carica del significato di categoria alla quale si dovrà fare riferimento per rappresentare quello che sta accadendo. Una metafora, un’allegoria diventano strumenti di comprensione anche di quello che non si era previsto, non si era immaginato. Quasi sempre si tratta di espressioni ad alto livello di semplicità perché la metafora, l’allegoria sono il tentativo di ricondurre la complessità in una forma semplice e trasferibile in  situazioni e contesti diversi da quelli in cui si sono generati.

Così durante l’omelia della vigilia di Natale 2020,  Papa Francesco ha citato Emily Dickinson; Ursula Von Der Leyen durante un discorso ha citato Romeo e Giulietta di Shakespeare e due versi  da “Littte Gidding”, uno degli straordinari “Quattro quartetti” di Eliot: “ Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/e finire è cominciare” ( cito dalla traduzione di Filippo Donini).

Forse potrebbe anche sembrare strano, ma a volte si ha bisogno della poesia per capire. Forse se ne ha bisogno soprattutto quando molti significati sembrano sfuggire alle nostre categorie, ai nostri sistemi di pensiero, alle strutture nelle quali organizziamo i nostri concetti. Forse se ne ha bisogno quando i tempi che vengono sono diversi, con i fili delle storie aggrovigliati, quando non si riesce a trovare paragoni e quindi gli esempi delle soluzioni, quando non si sa bene o non si sa per niente verso quale direzione sia più giusto andare, quale sia il modo migliore per scansare i macigni.

Allora, in quei tempi, in quei frangenti, lungo quegli argini frananti, si ha bisogno della poesia. Dei suoi riferimenti.  Della sua sintesi essenziale. Delle sue intuizioni sorprendenti. Delle sue visioni della Storia, del suo andare oltre: i tempi, i luoghi, i fenomeni,  le circostanze, le occasioni, gli accadimenti. Non possiamo aspettarci spiegazioni. La poesia non spiega quasi mai. Rivela, fa vedere, accende percezioni, mette a disposizione  sensazioni e sentimenti, coinvolge in esperienze di pensiero. Dimostra che, in fondo, le emozioni delle creature sono sempre le stesse, sempre quelle, anche se si propongono con  forme e linguaggi diversi. Sono sempre quelle le emozioni provocate dalla paura e dalla felicità, dalla serenità e dalla preoccupazione, dalle sicurezze e dalle incertezze. Fa sentire, non spiega.

La poesia non risolve nessun problema. Però qualche volta ci insegna a stare dentro i problemi, a confrontarci con essi. Da una poesia si apprende, consapevolmente o inconsapevolmente, il metodo del non arrestarsi sulla soglia di quello che si vede, del ribaltamento della soglia per guardare sotto, alla ricerca del significato nascosto.

La poesia dimostra che, nella ricerca dei significati essenziali delle cose,  è dai particolari che si parte ed ai particolari si ritorna. Per questo motivo propone riflessi, scaglie, frammenti. Dice a colui che legge che  il contesto deve costruirlo da solo; però lo avverte che il contesto completo non si riesce quasi mai a costruirlo da soli, che si ha sempre bisogno di mettere insieme i parziali contesti costruiti da ciascuno per poter ottenerne uno, se non completo  un po’ meno incompleto. Ma lo avverte anche che i contesti cambiano continuamente e che occorre continuamente riscostruirli e metterli insieme tenendo conto che con i contesti cambiano anche le posizioni dei particolari che lo compongono e quindi i loro significati. 

Allora, quando si arriva a un punto in cui si avverte una sensazione di disorientamento, in certe situazioni che sembrano confuse oppure che lo sono veramente,  ci si rende conto che per comprendere il profondo si deve far ricorso a una poesia.  

Quando si vuole capire che cosa ci sia dentro le cose a monte e a valle del tempo che ci è stato prestato; quando si vuole scrutare il fondo per scoprire quali meraviglie e quali misteri nasconde; quando si vuole andare al di là dell’apparenza fino a giungere all’essenza e al lievito della sostanza. La poesia serve quando le parole che di solito pronunciamo e ascoltiamo si rivelano banali o comunque inadeguate, quando non riescono ad esprimere il nostro rapporto con gli esseri e le cose, con le esperienze e le storie che attraversano la vita, con le esistenze con cui ci confrontiamo, di cui avvertiamo la necessità di stringere il senso, di comprendere la trama, di svelare l’intreccio. Serve quando la ragione non basta a spiegare i fatti e i fenomeni di cui siamo protagonisti o coinvolti spettatori, quando rispetto ad essi non riusciamo a trovare convincenti motivazioni. Quando le emozioni si fanno travolgenti. Allora ci serve una poesia che possa darci la sensazione di raggiungere almeno una delle forse innumerevoli verità che agiscono intorno e dentro le nostre esistenze.      

L’umile scienza

Non l’arroganza, la supponenza, la presunzione, l’alterigia, la vanità, il narcisismo, la superbia. Ma l’umiltà della scienza. La storia della scienza insegna l’umiltà, dice Naomi Oreskes, che insegna Storia della Scienza e Scienze della terra  alla Harward University, in un’intervista su “La lettura” del “Corriere della sera”. Di Naomi Oreskes è uscito di recente un saggio dal titolo Perchè fidarci della scienza?

Questa è la domanda, dunque: se è possibile fidarsi della scienza. Innumerevoli possono essere le risposte: quanti solo coloro che si pongono la domanda. Ma sarebbe improbabile che qualcuno potesse rispondere che non ci si può fidare. Perché poi sarebbe costretto a dire di chi o di cosa sia possibile fidarsi.  La scienza è forse una delle poche, delle pochissime condizioni, delle pochissime realtà e delle forse pochissime prospettive di cui ci si può e ci si deve fidare. Non è possibile farne a meno. La scienza è quella dimensione che ha consentito il progresso, lo sviluppo, il benessere collettivo e soggettivo. Non si può fare a meno di esprimere gratitudine e fiducia. A condizione, però, che la scienza si ponga nei confronti dei fatti, dei fenomeni, delle creature con un sentimento di umiltà. In fondo, la scienza, la grande scienza, ha sempre fatto così. E’ stata umile, ha manifestato i dubbi e le incertezze, ha detto di non essere sicura di riuscire a fare quello che aveva intenzione di fare e, quando poi ci è riuscita, non ha rivendicato onorificenze, ma ha continuato a lavorare, a sviluppare i risultati ottenuti. Ha continuato la sua ricerca nell’anonimato di tanti che trascorrono la propria esistenza a studiare una particella misteriosa nel silenzio dei laboratori, a volte neppure sospettando che hanno il semplice grandioso obiettivo di andare al di là dell’acquisito, di oltrepassare le Colonne d’Ercole della conoscenza.

Ma probabilmente più di qualsiasi altro uomo hanno la consapevolezza che non è possibile porre un limite al sapere, che ci sarà sempre, comunque, un’altra realtà da scoprire, una nuova ipotesi da formulare, oppure soltanto una smentita.

“La scienza è un processo di apprendimento continuo, una disamina collettiva e trasformativa. Ci si confronta con l’evidenza e si costruisce un consenso attorno a risultati rivedibili”, dice Naomi Oreskes.

La scienza sa perfettamente che nessuna conquista può essere mai definitiva, che c’è sempre qualcosa al di là, qualcosa che si può raggiungere ancora. Sa anche che resterà sempre qualcosa di inesplorato, di irraggiungibile. La scienza, quella vera, la grande scienza, sa che la ricerca è infinita, che la sua natura, la sua ragione, la sua finalità consistono proprio nella ricerca, nel costante approssimarsi a luoghi sconosciuti, a conoscenze non ancora acquisite.

La scienza vera, la grande scienza, si struttura sulla consapevolezza del limite e sull’ansia di superare il limite. Il limite rappresenta, ad un tempo, l’impedimento e il  richiamo seducente. Non ci sarebbe stata mai scoperta, mai invenzione, senza il confronto con il limite, senza la volontà, oppure anche soltanto l’istinto, di superarlo, di andare oltre. Ma la vera scienza, la grande scienza, nei confronti del limite ha avuto rispetto: si è confrontata con esso senza sfidarlo. Lo ha superato riconoscendone la grandezza, sapendo  che avrebbe dovuto immediatamente confrontarsi con un altro limite forse anche più grande.

Se la scienza ha raggiunto livelli straordinari, che anche soltanto mezzo secolo addietro si potevano a stento immaginare, è stato perché ha avuto umiltà, lasciando l’arroganza a chi scienza non ne aveva.

Ora noi attraversiamo un tempo in cui gli accadimenti costituiscono una ulteriore dimostrazione di quanto i risultati che raggiunge la scienza risultino indispensabili al genere umano, di quanto le esistenze di tutti e di ciascuno siano condizionate  dalle scoperte della scienza. Ce ne rendiamo conto ogni giorno, concretamente. Ci siamo resi conto all’improvviso, da un giorno all’altro, di come un fenomeno della natura possa sfuggire alla nostra possibilità di controllo e coinvolgere tutto il pianeta, scompigliandolo. Così la scienza si ritrova, ancora, a fare i conti con un limite e a sentire addosso, ancora, l’ansia di superarlo, anche rapidamente. Perché le esistenze dipendono dalla sua rapidità: comprendere il prima possibile quello che serve, costruire gli strumenti, predisporre l’organizzazione, affidare il compito a chi possiede le competenze, definire i criteri di verifica e valutazione dei risultati. Adeguare. Riprogrammare. Facendo in fretta. Già, perché maturano circostanze che richiedono, pretendono dalla scienza una rapidità delle sue soluzioni. Accade quando il limite è minaccioso. Ci sono limiti che in fondo sono innocui e altri che sono minacciosi. I limiti innocui non impongono rapidità di soluzioni. Gli altri sì. Costringono  ad affrettarsi, provocano l’affanno. Il limite con il quale in questo tempo la scienza  si sta confrontando costringe alla fretta.

Il ragionamento che si sta facendo in queste righe è quello che può fare l’uomo della strada. Assai semplice, approssimativo. Inevitabilmente. L’uomo della strada di scienza non s’intende. Ha solo qualche superficiale informazione che gli proviene da una divulgazione a volte attendibile e a volte no. Allora si affida alla scienza vera, alla grande scienza, e di essa si fida. Nutre una fondata speranza che anche questa volta ce la farà, riuscirà a superare il limite, a trovare la giusta soluzione. Come ha fatto in altre situazioni della storia. Con umiltà.

La bellezza dei tempi che verranno

In un articolo su “Robinson” di  “Repubblica”, Renzo Piano scriveva   che esiste una bellezza più profonda di ogni altra, che è quella umana fatta di energia, solidarietà, passioni e desideri. Quella bellezza fatta da giovani carichi di speranza e voglia di un futuro migliore, che hanno un lungo cammino davanti e il compito di salvare la Terra. E’ una bellezza proveniente dall’invisibile che raggiunge il mondo visibile.

Tutto l’argomentare di Renzo Piano si riferiva a una condizione di bellezza che riguarda il futuro. Non diceva della bellezza che si è avuta in eredità dai secoli, ma di quella che ciascuno ha il dovere e il diritto di immaginare, progettare, costruire: per i luoghi che saranno abitati, ma soprattutto per le storie che accadrà di vivere. Diceva di una bellezza del futuro. Di una bellezza del tempo e delle storie che verranno. Di una bellezza delle creature che vivranno quel tempo e quelle storie. Diceva di prospettive. Di futuro.  Però futuro è la conoscenza impossibile. Futuro è tutto quello che non sappiamo, che possiamo soltanto prefigurare, immaginare, sognare. Eppure è con il pensiero costante del futuro e per il futuro che giorno dopo giorno percorriamo i territori della nostra esistenza. Giorno dopo giorno andiamo verso un modo di essere diverso. Forse non c’è un solo istante in cui ciascuno di noi non pensi al futuro. Non c’è gesto che si compia senza l’idea di una conseguenza, e la conseguenza è qualcosa di futuro. Non c’è apprendimento che non si proietti nel futuro, e non c’è insegnamento. Ecco, in tutti questi pensieri e prospettive e gesti, si dovrebbe tener conto della possibilità di configurare una bellezza per il futuro. Ma per questo c’è bisogno di un nuovo pensiero, di una nuovo concetto di creatività, per esempio, di una sua nuova prassi. Si dovrebbero saltare gli ostacoli di idee consolidate e consumate, di schematismi che in quanto tali costituiscono impedimenti.

Questo è un tempo  che richiede e talvolta impone di tentare l’ulteriore, attraverso un processo costante di ricerca che esclude ogni situazione di definitività, di acquisizione compiuta e completa.

Questo è un tempo che ha necessità di una riformulazione e di una rifondazione di significati, di nuove modalità di relazione con gli accadimenti e con le cose, con la Storia, la cultura, la formazione, con le trasformazioni che si verificano rapidamente, vertiginosamente. E’ un tempo che ha bisogno di un modo diverso di mettersi in confronto con la scienza e con le arti, con la realtà e con la fantasia.

Nessuna bellezza si potrà realizzare se non si elaboreranno virtuose combinazioni di arti e scienze, filosofie e religioni, tecniche e tecnologie.

Si avrà necessità di percorsi interdisciplinari, anche transdisciplinari, di una pluralità e al tempo stesso di una convergenza di esperienze esistenziali e, in quanto tali, culturali.

La bellezza del passato si serviva di metodi, tecniche e strumenti prevalentemente disciplinari e con quegli elementi ha realizzato opere strabilianti, che probabilmente non si possono superare. Adottare gli stessi metodi, le stesse tecniche, gli stessi strumenti, comporterebbe, inevitabilmente, la produzione di copie, di imitazioni. Allora servono davvero un nuovo modello di pensiero, nuove espressioni di creatività, nuove forme di sperimentazione. Certo, senza ignorare e senza trascurare quello che è stato. Senza rifiutare la memoria. Il passato, con la sua rete di esperienza, con il prodotto della elaborazione concettuale, con la sistematizzazione della conoscenza, costituisce una condizione essenziale per ogni nuovo pensiero, per ogni nuova forma di creatività.

Ai giovani è affidato il compito di realizzare la bellezza del futuro. Ovviamente. Inevitabilmente. Al loro entusiasmo, alle loro passioni. Alle loro conoscenze, alle loro competenze. Ai loro desideri.

Loro hanno un sistema simbolico e culturale diverso, esperienze diverse, storie diverse, un diverso immaginario individuale e collettivo. Hanno tempi, modi e strumenti  di apprendimento diversi, sanno confrontarsi con contesti e situazioni globali perché dalla globalità sono avvolti e coinvolti. Sono creature di un’epoca che ha mutato radicalmente l’antropologia, le modalità di pensiero, la logica, gli strumenti del conoscere e del comunicare, i sistemi di riferimento, le forme di relazione sociale, le modalità di apprendimento, i significati di informazione e di cultura.  Loro vivono in una coesistenza di passato e presente, di lontano e vicino. Possono spostarsi virtualmente in ogni tempo e in ogni luogo; possono virtualmente appropriarsi di ogni storia e di ogni geografia. Non hanno limiti, non hanno confini. Sono viaggiatori, esploratori di territori sconfinati. Conoscono cose che nessuno ha mai conosciuto. Sono il nuovo venuto.  Michel Serres, il filosofo ed epistemologo francese, ha detto che, senza rendercene conto, nel tempo che va dagli anni Settanta ad oggi, è nato un nuovo essere umano. Il nuovo essere umano ha un pensiero diverso e quindi un diversa visione della realtà, una diversa immaginazione, un altro concetto di creatività e una sua diversa espressione. Soltanto loro, con quella diversità di visione, di immaginazione, di creatività, dunque, possono realizzare una nuova bellezza, coerente con i tempi  e i luoghi che saranno, con i linguaggi che attraverseranno  quei tempi e quei luoghi, con le narrazioni che nel loro presente rappresenteranno  un altro futuro.

Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?

Il 21 maggio del 2005, David Foster Wallace cominciò il suo discorso ai laureandi del Kenyon college, raccontando la storiella di due pesci.

Disse: ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due pesci giovani nuotano ancora un  poco, poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è l’acqua?”.

Il succo della storiella dei due pesci, dice Wallace, è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti, sono spesso le più difficili da capire e da discutere.

Probabilmente è vero.

Ogni giorno, ogni ora, forse anche in ogni istante, facciamo i conti con alcune fondamentali realtà, ma non sempre si riesce a capire per quali motivi i conti  a volte tornano e a volte no.

Allora ci si dice che la realtà è quella. Basta.  Come i due giovani pesci di cui raccontava  David Foster Wallace, non  sappiamo dire cos’è l’acqua: ci siamo dentro. E’ la realtà che ci avvolge con tutte le sue forme, nella quale ci coinvolgiamo, senza farci molte domande, senza congetturare  sulle differenze. Anche quando rivolgiamo ad essa critiche, anche quando ci opponiamo, lo facciamo in quanto sentiamo che ci appartiene, intensamente. Qualche volta accade anche che la critica e l’opposizione siano determinate dalla nostalgia per quello che è stato, per il modo in cui siamo stati in un tempo precedente. Ma poi ci rendiamo conto che anche prima avevamo nostalgia di un altro prima. Forse è anche normale che sia così, per ogni persona, per ogni generazione.

Forse diventa meno difficile comprendere o discutere la realtà quando  per natura e cultura essa si trasforma e ci trasforma. Accade con la storia, per esempio. Si può discutere e comprendere i fatti e i personaggi, quando i fatti e i personaggi si sono trasformati, trasformandoci. Finché si vive di giorno in giorno le cose che succedono, finché di quelle cose si è protagonisti, mentre si verifica l’impatto con gli eventi e si è completamente impegnati a tentare di governarli, comprenderli diventa complicato. Certo, si reagisce, ma frequentemente si tratta di una reazione emotiva o ideologica; si critica perché si pensa che le cose debbano andare diversamente; ci si oppone per dolore, delusione, malcontento; si discute perché l’evento spesso  squaderna le consuetudini e le certezze, disarticola gli equilibri, introduce incognite nei sistemi di riferimento. Però comprendere è difficile davvero.

La  realtà ci appartiene a tal punto,  apparteniamo a tal punto alla realtà, che non abbiamo motivi, e a volte nemmeno il tempo, per riflettere sulle sue condizioni. Se lo facessimo, forse ci accorgeremmo che non di rado il nostro confronto con essa non si fonda sui significati sui quali si dovrebbe fondare. Forse ci accorgeremmo che si attribuisce una eccessiva importanza ad alcuni aspetti che non sono propriamente essenziali ed una importanza minima, inadeguata, ad aspetti che invece dovrebbero avere un’importanza assoluta, per tutti, per tutto.

Il rapporto con gli altri, per esempio. Per qualsiasi ragione, ad ogni livello, soggettivo e collettivo, costante oppure occasionale, marginale o sostanziale. Ad ogni tipo di rapporto con gli altri si dovrebbe dedicare un senso profondo, perché tutto il resto dipende da quella profondità di senso. Soprattutto quando i tempi e gli avvenimenti possono provocare l’egoismo.

Verso la fine del discorso,  David Foster Wallace dice che   vi sono molti  tipi di libertà, “e del tipo che è il più prezioso di tutti, voi non sentirete proprio parlare nel grande mondo esterno del volere, dell’ottenere e del mostrarsi. La libertà del tipo più importante richiede attenzione e consapevolezza e disciplina, e di essere veramente capaci di interessarsi ad altre persone e a sacrificarsi per loro più e più volte ogni giorno in una miriade di modi insignificanti e poco attraenti”.

Essere capaci di interessarsi agli altri, dunque. A volte gli altri sono coloro che ci vivono accanto. A volte gli altri sono l’umanità per intero, che però è formata sempre da qualcuno che vive accanto ad un altro, in una catena che comincia ad un punto e probabilmente finisce esattamente nel punto da cui è cominciata.

Per esempio. Accade sempre più frequentemente, in diverse occasioni, in diversi contesti, che si dica dell’urgenza di disinnescare  le mine dell’inquinamento  che abbiamo disseminato per tutto il Pianeta. Ma per poterlo fare veramente, diventa indispensabile pensare che su quelle mine sono gli uomini che saltano: l’uomo che ci vive accanto e che a sua volta vive accanto ad un altro, nella catena che comincia e finisce allo stesso punto: esattamente nel punto in cui ci troviamo noi.  Forse in questo modo si capisce che, attribuendo un senso profondo al rapporto con l’altro, si attribuisce una profondità di senso al rapporto con se stesso. Forse in questo modo  si capisce  che non ci può essere salvezza per sé senza che ci sia una salvezza dell’altro. Banalmente: tutti o nessuno; insieme con l’altro qualcosa è possibile; da soli è impossibile tutto. Non si può spezzare la catena.

Come i due giovani pesci, noi non sappiamo cos’è l’acqua. Però riusciamo a sentire com’è. Riusciamo a sentire se è torbida. Riusciamo anche a capire che, non potendo abbandonare quell’acqua della realtà che si è intorbidita, dobbiamo necessariamente fare di tutto per ripulirla. Dobbiamo ripulire la realtà dagli elementi che la intorbidiscono perché questa condizione ci consente di sopravvivere. Ciascuno ci mette qualcosa in modo da poter ripulire l’acqua di tutti.

Siccome si ha la possibilità e la libertà di farlo, allora si tratta semplicemente di decidere se si intenda servirsi di questa possibilità,  se si intenda esercitare questa libertà.

Sembra una cosa semplice, in fondo. Almeno da dire.

( Questo contributo riprende articoli apparsi in “Nuovo Quotidiano di Puglia”)

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